Una curva dopo l’altra, con le filature di Biella alle spalle e con un tappeto di ricci di castagni ai lati della strada, si sale verso Sagliano Micca (BI). Qui, sul lato sinistro di un percorso leggermente in salita sorge il Cappellificio Cervo. Con la sua insegna dai contorni liberty dipinta sulla facciata, l’edificio geometrico prettamente industriale svetta tra le alture della Valle Cervo.
Rechiamoci insieme al Cappellificio Cervo di Sagliano Micca (BI) con Apriti Moda 2023.
- La Valle Cervo;
- Biella, la Valle Cervo e i cappellifici tra passato e presente;
- Il ruolo del cappellaio nel 1700;
- L’Ottocento;
- Tra Ottocento e Novecento;
- Il Novecento;
- Barbisio e Cappellificio Cervo;
- Qualità e colori brillanti al cappellificio Barbisio;
- L’accuratezza e la qualità del Cappellificio Cervo;
- Il processo produttivo del cappello al Cappellificio Cervo di Sagliano Micca (BI) con ApritiModa (edizione 2023);
- La vita in cappellificio;
La Valle Cervo
La Valle Cervo è un territorio montano della provincia di Biella che si sviluppa a nord, seguendo il corso del Torrente Cervo, dal piccolo comune di Piedicavallo (famoso per le sue leggende associate all’adiacente Lago della Vecchia – come affermò Estella Canziani) al capoluogo piemontese. Stretta e chiusa ai suoi confini da alte montagne, la Valle Cervo con il tempo ha saputo esprimere tutta la sua forza, la sua tecnica e la sua creatività con la nascita, l’insediamento e la diffusione di attività artigianali e successivamente industriali fortemente radicate al territorio; dalle industrie per la lavorazione della lana alla progettazione e fabbricazione di cappelli.
Biella, la Valle Cervo e i cappellifici tra passato e presente
Le acque limpide e fresche del Torrente Cervo che bagnano i terreni della vallata e le maestranze locali conoscitrici di un mestiere artigianale permisero al biellese e alla Valle Cervo di popolarsi dei cappellifici più rinomati d’Italia. Ma, il percorso non fu sempre in salita.
Per comprendere la storia del Cappellificio Cervo e le vicende dei cappellifici è necessario fare un passo indietro e risalire al 1700, agli albori della cappelleria biellese.
Il ruolo del cappellaio nel 1700
I documenti risalgono al 1755, quando Gio Batta Bonessio di Adorno Cacciorna si trovava a Torino di fronte ad una commissione esperta con la richiesta di poter continuare a lavorare presso la bottega del suo paese natale. Prima di lui, tanti altri. Di Gio Batta Bonessio, non si hanno scritti ufficiali sulla sua formazione, ma quel che è certo é che anche lui, come tanti altri giovani, si recò all’estero a Lione o a Parigi dove fiorivano fabbriche di cappelli e poi verso Torino o nell’astigiano per imparare ulteriori segreti di quest’arte.
Il Settecento vedeva il mastro cappellaio come una maestranza di un sapere pratico che si esprimeva in manufatti, capolavori di ingegno e manualità.
Nonostante la bottega fosse al piano terra della sua abitazione, in una sorta di tugurio di 50 mq. fortemente soggetto all’umidità, il cappellaio grazie alla presenza del Torrente Cervo e al facile approvvigionamento laniero riusciva a realizzare prodotti di alto valore. Di fianco al maestro, era sempre presente un’apprendista, con l’intento di salvaguardare e tramandare il sapere acquisito.
Il Settecento vedeva prettamente in Valle Cervo un’economia rurale, la quale spesso impiegava i cappellai in attività agricole integrative, creando così una stretta correlazione tra agricoltura, allevamento e artigianato, fortemente radicata al territorio piemontese.
L’Ottocento
Il cappellificio biellese nel periodo pre – unitario era, con la sua modesta realtà, protagonista di un maggiore consolidamento per merito delle commesse militari e grazie all’allargamento nazionale e internazionale (anche americano, africano e medio orientale) del mercato. Nonostante ciò il mastro cappellaio biellese doveva fare i conti con le regole, la concorrenza dei prodotti esteri e gli artigiani di diverse località italiane. I cappellifici biellesi però si fecero notare per la loro alta manifattura, la quale competeva sul piano qualitativo con le fabbriche di Lione. Ciò che li rendeva così ricercati non era tanto la materia prima, ma il basso costo di un’eccellente manodopera, la quale fece assumere ai cappelli prezzi imbattibili. Solo così, grazie all’umiltà e al salario modico, il biellese riuscì a restare fino al 1880 ai vertici.
In seguito ai primi anni di formazione dello Stato Unitario, si ebbe un incremento produttivo generale dovuto all’introduzione della meccanizzazione, soprattutto in ambito tessile. Le aziende tessili aderirono alla trasformazione innovativa in tempi brevi, ma il settore del cappello guardava con sospetto le nuove tecnologie preferendo ancora una manifattura “casalinga”, spaventato dalla grande unità produttiva troppo soggetta all’andamento del mercato, nonostante la rivoluzione attuata nell’Ottocento da Pietro Sella. I biellesi anche dopo l’Esposizione Universale di Parigi del 1878 non lasciarono facile strada alle nuove macchine arrivate: la manualità piemontese vinceva 1 a 0 a livello di qualità.
Fu in questi anni che sorsero in Valle Cervo numerose aziende: la Davella nel 1854, la Barbisio nel 1862, la Grosso Valtz nel 1865 e la Sereno Giacomo nel 1870.
Se da una parte i cappellifici biellesi e della Valle avevano il primato per i loro prezzi e per la loro qualità, dall’altra parte, Alessandria e Monza con la loro manifattura proseguivano sulle orme dei grandi cappellifici esteri, affiancati dal supporto dei nuovi macchinari. L’industria biellese mostrò in questo frangente il suo ritardo tecnologico.
Ecco che dunque, la realtà produttiva della “Manchester italiana” andava ripensata.
Tra Ottocento e Novecento
L’industria della cappelleria biellese era in gran parte ancora mestiere e gli impianti nella prevalenza delle fabbriche erano ancora quelli antichi.
A cavallo del ‘900, sull’onda del progresso europeo, alcuni cappellifici inclusero i macchinari e una divisione del lavoro – “a catena”. Sebbene i docili cambiamenti, il cappellaio biellese rimase fermo nell’idea di proteggere il suo ruolo da artigiano, da non confondere con l’operaio addestrato a manovrare macchine – come invece accadeva nelle industrie concorrenti. Lui vantava di una conoscenza fatta e finita – per certi versi, insostituibile (cappellai erano Basilio Barbisio, Maggiorino Guasco di Grosso Valtz e C., oppure Davella).
Il Novecento
Una figura ancora prorompente, quella del cappellaio anche nell’ascesa vera e propria del cappellificio biellese tra gli inizi e la prima metà del Novecento.
Il cappellaio, se da un lato rallentava il processo produttivo, dall’altro determinava la sopravvivenza della lavorazione manuale effettuata a cottimo da manodopera stabile e qualificata.
Per il biellese la soluzione più idonea in questo contesto era quella della cooperativa e della piccola impresa, abbandonando la produzione di cappelli di lana e orientandosi verso manufatti di pelo fino ed ordinario (di coniglio e lepre) differenziandosi dalla produzione monzese e alessandrina di cappelli di lana e cappelli di pelo finissimo.
Lo sviluppo industriale senza precedenti dal 1896 al 1908 spazzò definitivamente via quelle fabbriche biellesi vecchie e fragili, consentendo ad alcune aziende più strutturate di progredire, come la Barbisio di Sagliano Micca (1862), il Cappellificio Cervo di Sagliano Micca (1897) e la Grosso Valtz di Adorno.
Dal 1900 la produzione di cappelli salì, le aziende resistettero ai conflitti mondiali e alla crisi degli anni Venti – Trenta e iniziò a comparire una rete commerciale di rappresentanti che si estendevano in quattro continenti. Oltre all’ampliamento aziendale ogni complesso si servì di un concordato sottoscritto da imprenditori e lavoratori e ai vertici dell’azienda presero le redini figure esperte in import-export e ruoli creativi (come l’illustratore Boccasile) per veicolare in maniera ironica, elegante e colorata il prodotto biellese.
Nonostante i cartelloni pubblicitari e i gadget, dagli anni Quaranta il settore dovette iniziare a guardarsi alle spalle. L’andamento produttivo diventò irregolare, fino al crollo definitivo come conseguenza della scomparsa del cappello dagli armadi per fare posto ad abiti e accessori più pratici, come la moda degli anni Sessanta richiedeva.
Le industrie che andarono in crisi furono quelle più grandi, le quali non riuscirono a sostenere il crollo vertiginoso. Si tentò in tutti i modi, addirittura puntando verso un ulteriore ammodernamento produttivo.
Da produzioni di circa 360.000 cappelli all’anno e a 400 maestranze per cappellificio, alla scomparsa definitiva.
Attualmente i cappellifici presenti sul territorio sono il Cappellificio Cervo e il Cappellificio Biellese 1935.
Barbisio e Cappellificio Cervo
Qualità e colori brillanti al cappellificio Barbisio
Il cappellificio Barbisio venne fondato nel 1862 a Sagliano Micca (BI) da alcuni cappellai. Nel 1886 l’azienda contava sedici operai, con una produzione annuale di 10.000 cappelli, fino ad arrivare nel 1924 a 280.000 unità annue; numeri sempre in crescita anche dopo gli anni Trenta. Dal Novecento la ditta cambiò spesso collocazione, fino a stanziarsi su un’area di 15.000 mq. negli anni Cinquanta. Il prodotto Barbisio garantiva la qualità di una lavorazione a mano effettuata da figli e nipoti di cappellai e un finissaggio insuperabile. Colori limpidi, brillanti e tinte trattate con acqua pura erano i suoi segni distintivi. Dall’Europa all’Africa, con cartelloni e negozi monomarca Barbisio era sinonimo di qualità.
Nel 1981 l’azienda chiuse e l’anno successivo il marchio fu acquisito dal Cappellificio Cervo.
L’accuratezza e la qualità del Cappellificio Cervo
L’anno 1897 vide la nascita, sotto forma di cooperativa a Sagliano Micca (BI), del Cappellificio Cervo. Inizialmente collocato in alcuni capannoni adiacenti al Torrente Cervo e in seguito su di una superficie di 5000 mq., il Cappellificio Cervo vantava fino al 1919 di una lavorazione quasi interamente manuale; solamente nella nuova sede si passò al ricorso, sempre in maniera progressiva, delle nuove macchine. Su 1500 abitanti del paese di Sagliano Micca, 400 erano impiegati presso il cappellificio. Il prodotto del Cappellificio Cervo appare robusto, sicuro, accurato e dai prezzi contenuti. Solamente secondo al cappellificio Barbisio, il Cappellificio Cervo apparteneva alle aziende di cappelli più conosciute a livello mondiale.
Attualmente oltre a creare copricapi con il marchio Barbisio (acquisito nel 1982) e Bantam, il Cappellificio Cervo offre il suo know how a brand internazionali e dal 2018 appartiene al Gruppo Zegna e alle famiglie Borrione e Caldesi.
Il processo produttivo del cappello al Cappellificio Cervo di Sagliano Micca (BI) con Apriti Moda (edizione 2023)
Tramite l’iniziativa ApritiModa ho avuto l’occasione di recarmi al Cappellificio Cervo di Sagliano Micca (BI) e di scoprire il processo produttivo che si cela dietro ai rinomati cappelli biellesi.
Fino al secondo dopoguerra il ciclo di lavorazione era prodotto in grande quantità manualmente, anche se si registravano reparti interessati alla meccanizzazione. L’iter di lavorazione aveva un corso omogeneo in tutte le fabbriche del biellese e della Valle Cervo, anche se alcuni particolari erano soggetti a variazione.
Attorno alle aziende di cappelli, giravano altre diverse realtà che completavano la produzione: aziende di teste e di cavalletti in legno (del Gozo, Canova, Cerruti, Grosso), scatolifici (Mantellero Polet, Capisano), nastrifici (Ferrero, Mantellero, Beltrame, Bussetti), produttori di marocchini (Cagliano, Cuttorini) e pelifici (Manzetti, Belli Ciolli), i quali davano origine alla materia prima (pelo) dalla quale si creava il cappello di feltro.
1. Il pelificio
L’industria del cappello in questa zona si differenziò rispetto agli altri centri con una produzione derivata da materia prima pregiata: il pelo ricavato dal coniglio domestico (lapin), selvatico (garenne) o dal pelo di lepre (arete). La qualità del cappello dipende dalla parte del vello dalla quale è tratto il pelo: la zona maggiormente soggetta a sfregamenti o sporcizia è quella meno pregiata (ordinario), mentre la schiena è ritenuta la zona più fine. Anche la stagione interferisce sulla qualità del pelo.
Il pelo subisce un trattamento di scorticatura e abrasione per consentire in tempi più rapidi la separazione del pelo dalla pelle; questo trattamento è chiamato secretaggio (dal segreto dei mastri cappellai – si utilizzavano mercurio e acidi – proprio come una pozione segreta) o mordenzatura. Successivamente il pelo viene staccato dalla pelliccia tramite un processo di tosatura e in seguito sfioccato.
Attualmente il Cappellificio Cervo per la produzione di cappelli di feltro importa il pelo già preparato da pelifici (aziende addette che utilizzano scarti di alimentazione per produrre il pelo) dal Portogallo.
2. Lavorazione in bianco
La fase iniziale della produzione del cappello è detta in bianco: pelo, acqua e vapore sono i protagonisti principali. In queste fasi si procede con la mescola del pelo e l’eliminazione di eventuali impurità tramite la soffiatrice. Da questa macchina il pelo esce in forma di materassino; un addetto lo divide in pesate (in base al tipo di cappello (grandezza – spessore) da realizzare – dai 60 ai 200 gr.) e le conduce verso un nastro trasportatore che fa cadere il pelo verso una camera chiusa.
All’interno di quest’ultima, su un asse rotante è collocato un cono o campana di circa 1 mt. per 60-80 cm. di diametro. Tramite un processo di aspirazione il pelo aderisce alla superficie della campana in modo uniforme. Successivamente la camera viene aperta per controllare che sia tutto a posto e con un getto di acqua bollente si fissa il pelo sulla superficie della campana. Le fibre del pelo si intrecciano e si crea così una prima falda o imbastitura, sottile e malleabile. La campana viene rovesciata e la falda sfilata con delicatezza.
In seguito la falda viene asciugata (spremuta) dall’acqua in eccesso, avvolta in sacchi di juta e passata in macchinari (rassodatrice) per far fuoriuscire l’acqua in abbondanza e rassodarla con la pressione. Successivamente si procede con la marciatura tramite “tribunale” per controllare la qualità del prodotto semilavorato (alla ricerca di eventuali rotture o impurità). In seguito l’imbastitura viene posta in una macchina con rulli che va a ridurre passaggio dopo passaggio l’ampiezza del manufatto e contemporaneamente a renderlo più spesso, tramite la follatura.
Per ottenere feltri con uno spessore più consistente, si utilizzano una sorta di martelli in legno alternati o rulli che vanno a battere il feltro. Un tempo in questa fase di lavorazione veniva aggiunto il mercurio per rendere il feltro più lucido; questa pratica però fu abbandonata per gli effetti collaterali (fisici e mentali) sulla salute dei lavoratori.
Il cono di feltro è ora compatto, uniforme, resistente e morbido.
Il successivo step al cappellificio è quello della tintura. Essa può essere svolta in tre modi differenti: tingendo immediatamente il pelo sfioccato (cappelli melangiati), tingendo i coni durante il passaggio di follatura oppure tingendo il feltro (tintura in capo). Il cono di feltro nelle tinozze di tintura con dei bastoni continua il processo di follatura (essendo il feltro idrorepellente) con forza per far aderire perfettamente il colore. Acqua e colore in eccesso sono in seguito eliminati.
Il cono viene poi gestito da macchinari per la formatura: dalle ali del cappello alla testa.
Alcuni feltri che avevano bisogno di maggiore tenacità (esempio i cappelli cilindro) passavano dalla sala degli appretti. Il processo di apprettatura consisteva nella miscela di gomme, resine e alcool per donare durezza ed elasticità.
3. Lavorazione in nero
Una volta terminata la fase in “bianco”, si procede con quella “in nero”, la quale parte con la formazione vera e propria del cappello e termina con la spedizione del prodotto.
Esistono due modi per formare i cappelli: il metodo più antico con le forme in legno e la metodologia attuale, con le forme di alluminio. Con il primo metodo, il feltro viene posto su un piano di legno forato al centro, chiamato cavalletto (con forma e taglia definita), sul quale è inserita la testa di legno, la quale incastrandosi va a colmare il vuoto. Con un filo al cavalletto, si lega il feltro umido che viene trattato con la sabbiosa, un banco di ghisa riscaldato a vapore sul quale poggiano due o più sacchi di sabbia scaldata; la pressione dei sacchi asciuga e modella.
Attualmente le forme ai cappelli sono date da macchinari (simili a delle presse) che utilizzano forme in alluminio (provenienti dalla Toscana) con foggia e taglia prescelta. I cappelli sono poi legati dalla fisella e lavorati uno a uno, mentre la macchina è composta da un maschio e da una femmina attivabili (salgono e scendono) tramite un bottone.
Il passaggio successivo consiste nella rifilatura: cioè il taglio del pezzo di tesa in abbondanza. In passato era eseguita con forbici ricurve (tutt’ora per i bucket hat), mentre nei giorni odierni è realizzata con una rifilatrice meccanica. In seguito il bordo è limato per eliminare eventuali discrepanze sul perimetro.
I cappelli dopo la fase della rifilatura sono nuovamente controllati, puliti e lucidati con il vapore.
Presso il Cappellificio Cervo i cappelli si muovono, come un tempo, su delle gabbie; tramite un montacarichi si spostano al piano inferiore (per le spedizioni) o al piano superiore per la rifinitura presso il laboratorio di sartoria. Qui si cuciono i marocchini di pelle (sul quale un tempo venivano stampati in oro (dal Signor Garea) marchio, nome della ditta produttrice e nome del rivenditore) e i nastri di gros grain che sono applicati all’interno del cappello, associati alle etichette. Esternamente è possibile invece trovare cinte in gros grain con fiocco o lacci di cuoio con diversi nodi che vengono fermati in modo solido e invisibile sul cappello. In alcuni casi sono applicate all’interno anche le fodere.
Attualmente presso il cappellificio sono prodotti cappelli di feltro e cappelli di paglia (intrecciata a mano proveniente dall’Ecuador). La produzione al Cappellificio Cervo parte dalla lavorazione “in nero”.
La vita in cappellificio
Percorrere i laboratori del Cappellificio Cervo è come intraprendere un viaggio nel passato; tutto sembra essere rimasto intatto. Tra i lunghi corridoi stracolmi di forme per cappelli (addirittura fino al soffitto), ferri da stiro accatastati o macchinari ormai impolverati si percepiscono ancora le voci e le risate di quelle persone che con dedizione e una spiccata manualità portarono i cappelli biellesi a coprire teste di uomini e donne di tutto il mondo.
Le testimonianze e le fotografie in bianco e nero raccontano di condivisione, amicizia e confronto. Come in una grande famiglia.
“Ho iniziato a lavorare a quindici anni nel cappellificio Barbisio, subito sono andata ad attaccare le fodere; i cappelli erano già quasi finiti, bisognava solo mettere la fodera e il nodino, poi mi hanno spostata nel reparto guarnissaggio, ho imparato a guarnire i cappelli, mettere il nastro, il marocchino, il nodo; c’erano tantissimi tipi di nodi e bisognava impararli tutti. Bisognava fare tre cappelli all’ora, belli o brutti, tre. C’era quella che era più svelta, che alla cinque magari aveva finito, invece quella che era più lenta e doveva magari anche iniziare prima. Poi c’erano i lunedì, quando si era giovani si andava a ballare e il mattino si chiacchierava, poi la sera c’era il mucchio e allora bisognava sbrigarsi […]
Il lavoro era abbastanza vario, c’erano tanti tipi di cappello e centinaia di nodi. […] Il guarnissaggio lo chiamavano il reparto dei nobili, le nobili guarnitrici; io mi ricordo che prima della guerra anche per le zie era un vanto lavorare da Barbisio.”
“A volte magari uscivamo prima: quando c’era qualche occasione, la fiera di Sagliano per esempio, perché i principali, che erano tolleranti ma tradizionalisti ci dicevano: “andate a comprare il torrone, perché loro quando tornano indietro magari vengono a comprare un cappello.”
“C’era stato un periodo di crisi enorme, io non lavoravo ancora, ero una ragazzina, ma mi ricordo che papà faceva magari un giorno alla settimana di lavoro, e allora non c’era la famosa cassa integrazione, e papà integrava andando a pesca su per la Sessera, a prendere le trote per poi andarle a vendere.”
Visitare il Cappellificio Cervo significa conoscere il passato di una parte della realtà produttiva biellese e della Valle Cervo. Tra lo scorrere di acque limpide, le foglie ormai arancioni e il paesaggio autunnale punteggiato da tetti a capanna prettamente industriali, si respira un’atmosfera ricca di storia e progresso. Non solo, come per il Cappellificio Cervo ognuna di queste aziende ha contribuito ad accrescere l’economia italiana, a far conoscere la qualità dei prodotti biellesi in tutto il mondo, e chissà che dietro quei muri di mattoni o dietro le grandi vetrate non ci siano anche in questo caso sorrisi, amicizie e un grande senso del lavoro.
Spero che questo piccolo tour al Cappellificio Cervo di Sagliano Micca (BI) con ApritiModa (edizione 2023) vi sia piaciuto.
Vi invito a visitare il sito del Cappellificio Cervo e di Barbisio.
Conoscete altri cappellifici storici in Italia? Fatemi sapere!
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A presto,
Valentina