In Valsesia: da Rima al Museo Etnografico di Romagnano Sesia (NO) alla scoperta degli usi e dei costumi del territorio.
I caminetti accessi, l’odore della legna, i fiori variopinti sui davanzali, l’interno accogliente di piccole casette sbirciato da una tendina ricamata, i lunghi percorsi in mezzo alle vallate, gli abiti tradizionali, le gustose miacce alla marmellata di more: questi sono i profumi e le immagini che mi ricordano la Valsesia.
- Valsesia: la Valle più verde d’Italia;
- La popolazione walser;
- Le abitazioni walser;
- Il costume tradizionale nella località di Rima;
- Il puncetto valsesiano;
- Rima;
- Da Rima al Museo Etnografico di Romagnano Sesia (Villa Caccia);
- Le attività agricole, vitivinicole e i mestieri tradizionali;
- Gli ambienti quotidiani;
- La cantina e l’osteria;
- La scuola;
- La fiorente industria e le tradizioni tessili;
Valsesia: la valle più verde d’Italia
Le case, le stufe, i forni, i fienili, le cappelle, le chiese, le fontane, i telai, le madie, le culle, le vesti, e così via ogni altra cosa che attesti la cultura materiale di questo popolo Walser, costituisce un patrimonio culturale da salvare quale radice imprescindibile per un più ampio riscatto della cultura montana, senza di che la cultura universale perderebbe una delle sue fonti più feconde di valori vitali. Valsesia T., Restelli F., Walser. Il fascino. Il mistero., 1999, Macchione Editore, Azzate (VA)
Soprannominata la “Valle più verde d’Italia”, la Valsesia è una zona alpina del Piemonte.
Con un’estensione fino al fiume Sesia, essa comprende, oltre alla provincia di Vercelli, anche tre comuni della provincia di Novara: Romagnano Sesia (sede del Museo Etnografico della Bassa Valsesia), Grignasco e Prato Sesia.
Per Valsesia si indica la parte settentrionale del territorio, chiamata Alta Valsesia (valle alpina della provincia di Vercelli) e la parte meridionale, conosciuta come Bassa Valsesia (area del letto del fiume Sesia).
La popolazione walser
Il popolo walser (Walliser, vallesano), di origine germanica e di estrazione contadina, si stanziò in Italia prima dell’anno Mille nelle zone alpine dell’Alto Vallese, occupando territori spopolati. Nel 1100 ripresero il loro cammino addentrandosi a sud, nei pendi del Monte Rosa e nelle valli di Gressonay, Sesia e Macugnaga. Da qui essi giunsero agli attuali paesi di Rima, Rima San Giuseppe, Rimella, Rimasco, Carcoforo, Riva Valdobbia e Alagna.
Non si hanno testimonianze certe riguardo alle motivazioni che portarono la popolazione walser alle continue migrazioni e agli spostamenti verso le regioni italiane e il confine; forse la ricerca di nuovi pascoli, o gli incentivi offerti dai signori che amministravano la zona dell’attuale Piemonte.
Con certezza si conosce l’alta resistenza di questo popolo alle condizioni climatiche e ambientali avverse; addirittura furono i soli a riuscire a vivere in questi territori così inospitali. Essi portarono avanti opere di canalizzazione delle acque, mantenimento dei prati e la coltura su terreni dissodati.
Pastori, alpigiani, boscaioli. Non sono né usurpatori né colonizzatori di terre, ma dei civilizzatori che sanno utilizzare le risorse dei territori più avari e inospitali.
Lassù l’erba è rara e cortissima, ma piena di aromi dei fiori raffinati. Non ingrassa, ma profuma il latte e ogni filo è un bene troppo prezioso per essere sprecato.
I popoli walser con i loro usi e i loro costumi sono stati oggetto di studi. Il loro modo di vivere, le loro abitazioni, le attività più praticate affascinano da sempre antropologi e storici (uno tra questi Enrico Rizzi), i quali hanno saputo ripercorrere le loro abitudini, creando una vera e propria Walserfrage (questione Walser).
Lo stile di vita del popolo walser era lento, scandito dalle stagioni e dagli avvenimenti religiosi. Una cultura ben radicata nelle valle, con una lingua discendente dai dialetti alto – tedeschi e da usanze e abitudini antiche tramandate oralmente.
Le abitazioni walser
Alcuni paesi della Valsesia sono punteggiati da case walser, in legno (larice) e in pietra, facilmente riconoscibili per la loro struttura. Tuttavia è possibile trovare dei cambiamenti nel carattere delle abitazioni in base alle diverse zone.
Contraddistinta da interni bassi per non far disperdere il calore, da tetto con lose di ardesia e da loggiati esterni in legno, i quali consentivano, grazie ad un reticolo formato da legni orizzontali di far seccare il segale, il fieno e la canapa, la casa era funzionale al lavoro agricolo/pastorale.
Essa era costituita principalmente da vani uno sopra l’altro, fino ad un’altezza di tre piani. Al piano inferiore (solitamente in pietra) era presente la stalla, la cucina e il soggiorno. Accanto un ripostiglio consentiva di conservare vino e formaggi. In questa zona (stube, di derivazione nordica) era presente spesso anche un telaio, con il quale le donne tessevano la lana, per realizzare tessuti resistenti e la canapa per asciugamani, lenzuola, federe, camiciole e abbigliamento per neonati.
Il piano superiore era dedicato alle camere da letto, le quali spesso si trovavano al di sopra della stalla, consentendo in questo modo di sfruttare il calore degli animali. Le stanze erano anche adibite per il deposito degli attrezzi utili alle attività lavorative della famiglia.
L’ultimo piano o sottotetto era invece destinato alla conservazione del fieno o alla raccolta di foglie di faggio utili per la confezione di pagliericci. Non era raro trovare sul soffitto ganci per appendere salsicce e carni salate, in vista dei mesi invernali.
All’interno del paese o frazione era forte il senso di comunità. Il mulino, il forno e la fontana erano luoghi comuni e tutti potevano usufruirne.
Tutt’ora è possibile ammirare abitazioni walser con le loro caratteristiche. Alcune sono state ristrutturate e rese più moderne, ma in ogni caso si è cercato di mantenere la struttura e l’estetica originale, nel rispetto del paesaggio, dell’ambiente circostante e delle tradizioni.
Il costume tradizionale nella località di Rima
Se si pensa che un tempo le diverse comunità della Valsesia avevano pochi contatti tra di loro, di conseguenza si può certamente affermare che ogni diverso gruppo montano sviluppò un proprio abito tradizionale.
Nel corso degli anni gli abiti cambiarono numerose volte, modificando ricami, pizzi, nastri o tonalità cromatiche.
Durante la processione del 15 agosto a Rima (in provincia di Vercelli), le donne indossano l’abito tradizionale della località.
Solamente dalla fine dell’Ottocento il costume di Rima assunse la sua foggia definitiva, abbandonando l’utilizzo del nero per lasciare posto a gamme cromatiche più vivaci. Alcuni elementi identificativi compongono l’abito tradizionale (della festa) del caratteristico borgo.
Capo prevalente è la camicia, chiamata anche hamd. Essa è di un bianco candido di solito in lino o tessuti naturali, con maniche ampie arricciate sulla spalla e inserti che ornano i polsi o deliziosi colletti, realizzati con la laboriosa tecnica del puncetto. La camicia era chiusa al collo tramite dei bottoni a gancio laterali ricoperti e asole realizzate in filo.
Il secondo capo che si incontra nell’abito di Rima è il corsetto chiamato anche busard (il bugiardo) o hotto. Ricamato, spesso in velluto dai colori vivaci con scollatura squadrata aveva il compito di creare un netto contrasto con il bianco neve della camiciola, indossata al di sotto.
Altro elemento del tipico abito di Rima è la patun (invernale), patela (estiva) o pata in lingua walser. Gonna molto ampia con spalline che si indossa sopra la camicia e il corsetto, caratterizzata da morbide pieghe, le quali permettevano movimenti funzionali alla vita di montagna. Frequentemente questo capo era contraddistinto da una banda orizzontale di tessuto di diverso colore sul fondo dell’abito per permettere di accorciarlo o allungarlo a piacimento e secondo l’utilità.
Sopra la gonna si indossava lo scusal o folder, un corto grembiule, solitamente blu scuro che copriva dal petto alla cintura.
Un nastro ricamato intorno al busto (chiamato stropa o scegno) teneva insieme tutti i capi tramite un vistoso fiocco sul davanti. Una delle particolarità di queste passamanerie, oltre alla loro bellezza cromatica era l’unicità: in passato ogni nastro era realizzato a mano da maestre artigiane.
Per le occasioni di clima freddo e umido, nel guardaroba femminile non mancava la camistal (hamp o hold), una corta giacchetta di lana nera resa particolare dai ricami con ornamenti elaborati sui polsini.
A completare l’abito venivano utilizzati gli scafun o scapin, calzature a forma di pantofole, realizzate tramite l’uso di abiti dismessi intrecciati e cuciti ad una suola in canapa essiccata e compatta.
Insieme al costume tradizionale e alle ciabattine, calzettine di colore bianco accompagnavano l’intero abito.
Il puncetto valsesiano
Nonostante le diverse fogge tra le valli, uno degli elementi in comune è l’uso del puncetto, un particolare tipo di merletto che arricchiva i colletti, maniche e polsini delle camicie.
Al nome di puncetto (piccolo punto) è legata una tradizione e manualità di origine millenaria, la quale trovò terreno fertile per la sua diffusione tra le montagne della Valsesia.
Da un ago, un filo, un insieme di piccoli incroci e nodi le donne valsesiane riuscivano a far trasparire lo stato sociale e il paese di origine delle donne o delle ragazze che indossavano queste trine. L’abito veniva così arricchito e pronto ad essere sfoggiato alle feste tradizionali o davanti ad un’antica macchina fotografica.
Custodito gelosamente nelle vallate valsesiane nel corso del Seicento e ispirato all’ambiente circostante e ai cristalli di neve, fu anche grazie alla Regina Margherita di Savoia e dai suoi itinerari per il Monte Rosa che ben presto il puncetto divenne conosciuto da viaggiatori di tutte le nazionalità.
Oltre alla regina, a cavallo tra Ottocento e Novecento, anche Eliza Matilda Johnson Lynch, nobildonna irlandese, per motivi di salute si trovò ad essere in stretto contatto con la cultura valsesiana. Ad alta quota, in Val Gogna, la donna rimase estremamente colpita dal duro lavoro delle donne nei mesi invernali e dalle condizioni precarie nelle quali alcune di esse riversavano.
Si può ricostruire nel mondo walser un affidamento alle donne di lavori pesanti (ad es. nei trasporti dei prodotti caseari dall’alpeggio al villaggio, del trasporto del fieno ecc.) che in tale ambiente risultavano ancora più pesanti che altrove […] Zanzi L., Rizzi E., I walser nella storia delle Alpi, Edizioni Universitarie Jaca, Milano, 1987
L’aristocratica donna ben presto si affezionò alla vallata; in cambio di costruzioni e beni per la comunità piemontese chiese piccoli pizzi realizzati a puncetto da poterli mostrare e vendere nel suo paese di origine. Gli acquirenti in Irlanda aumentarono a dismisura e per far fronte al continuo bisogno di merletti si istituì l’Industria Valvogniana. Maestre e donne del posto contribuirono all’impresa, la quale diede alla vallata la possibilità di arricchirsi per mezzo del puncetto.
Attualmente l’arte del puncetto è ancora una pratica tramandata da madre in figlia, ma si sta cercando di preservarla anche tramite l’istituzione di scuole, associazioni (Società Operaia di Mutuo Soccorso a Varallo) e musei (Museo del Puncetto a Fobello, provincia di Vercelli).
Rima
Nella valle di Rima i walser giunsero nel 1383, come testimoniano antiche pergamene ritrovate. La colonizzazione di questa parte del territorio avvenne da parte di famiglie provenienti da Alagna. La storia di Rima però non ha come protagonisti solo pastori medievali; per un lungo tempo questo villaggio fu considerato il paese più ricco della Valsesia, grazie all’emigrazione di capaci stuccatori che di frequente erano chiamati ad ornare le regge più fastose d’Europa.
Il piccolo paese, uno dei più alti della Valsesia è conosciuto anche per la lavorazione del marmo artificiale. La tecnica, che permetteva un’imitazione verosimile del marmo, fu portata avanti per secoli dagli artigiani rimesi, i quali erano chiamati all’estero per tramandare il loro sapere.
Uno dei grandi scultori del XIX secolo fu proprio Pietro Dellavedova, al quale è dedicata la gipsoteca tra i boschi di Rima al di là del borgo.
Tra queste vallate gli aspetti di vita arcaica sono ancora presenti.
Non è raro sentire il suono dei campanacci e i richiami di pastori che con il loro gregge scendono dalle pendenti valli.
l punto culminante della tradizione sono le processioni in abiti tradizionali.
Il 15 agosto Rima si popola per la Festa dell’Assunta, un rito ormai consolidato negli anni. La processione si snoda su di un percorso prestabilito. I prodotti tipici preparati dalla comunità vengono donati alla chiesa, per poi essere vendute tramite offerte nel pomeriggio.
Da Rima al Museo Etnografico di Romagnano Sesia (Villa Caccia)
Alta e bassa Valsesia: da Rima al Museo Etnografico di Romagnano Sesia presso Villa Caccia.
Circondato dalle valli del Monte Rosa, dalla pianura novarese, dal vercellese, dai Laghi, dal Sesia e dal Ticino, Romagnano Sesia (in provincia di Novara) ha giovato per secoli della sua fiorente posizione geografica. Paese di origine medievale e dedito all’agricoltura, nell’Ottocento divenne sede di industrie che favorirono lo sviluppo territoriale.
Sopraelevata sul Monte Cucco, Villa Caccia gode di un sorprendente panorama sul Massiccio del Monte Rosa e sulle colline novaresi. Adagiata su un luogo, precedentemente sede di un convento cappuccino, la struttura venne ideata tra il 1842 e il 1848 dall’architetto novarese Alessandro Antonelli (stesso progettista dalla celeberrima Mole Antonelliana di Torino) come residenza di campagna o di villeggiatura dei Conti Caccia di Romentino (i quali rimasero fino al 1950).
L’architettura dalla forma proporzionata e di stampo neoclassico riprende chiaramente i dettami delle opere palladiane per la presenza di elementi classicheggianti, come colonne e timpani.
La villa attualmente è in fase di restauro; l’ala orientale è invece sede del Museo Storico Etnografico della Bassa Valsesia, istituito nel 1973 da Maria Adriana Prolo, Fernanda Renolfi, Giuseppe Tinelli e Carlo Dionisotti.
Il museo nacque con lo scopo di conservare e valorizzare le testimonianze della vita rurale, delle tradizioni artigianali e manifatturiere.
Il visitatore, partendo dall’ala est dell’edificio, ha la possibilità di immergersi nella vita quotidiana di un tempo.
Il percorso di snoda in cinque ambienti principali: le attività agricole, vitivinicole e i mestieri tradizionali – gli ambienti quotidiani – la fiorente industria e le tradizioni tessili.
Le attività agricole, vitivinicole e mestieri tradizionali
La prima grande sala ad attendere il visitatore è un excursus della civiltà contadina della bassa Valsesia prima del 1870 circa. Gli strumenti prettamente manuali, in legno e in ferro, testimoniano il duro lavoro dei campi e l’attività di spremitura delle vinacce e delle noci.
La visita prosegue con la ricostruzione delle botteghe artigiane con le attrezzature utili per i mestieri tradizionali.
Il materassaio, il ciabattino, la lavandaia, il bottaio e il sellaio erano alcuni dei lavori più frequenti tra Ottocento e Novecento. Ma non solo, queste professioni è possibile trovarle in tantissime fiabe o filastrocche per bambini, a simboleggiare il forte legame con le vicende e tradizioni che in passato venivano trasmesse oralmente tra i ceti più umili.
Materassaio
Le famiglie meno abbienti del mondo rurale e agricolo erano solite utilizzare per dormire un capiente sacco imbottito di paglia, foglie e materiali, le quali però con il passare delle stagioni andavano via via sostituiti.
Le famiglie benestanti, invece, di conseguenza potevano permettersi materassi più comodi e caldi imbottiti di lana, i quali anche loro però perdevano con il tempo morbidezza, creando degli scomodi avvallamenti.
E’ in questo momento che entrava in scena la figura del materassaio. Egli, con poche ma accurate mosse, con l’aiuto di forbici, spago, aghi e la macchina cardatrice riusciva a dare nuova vita ai materassi. Il mestiere del materassaio era abbastanza frequente in Valsesia, soprattutto per l’ingente quantità di lana che questo territorio, tramite le pecore, aveva a disposizione.
Attualmente sono rimaste sporadiche attività di materassaio, le quali contribuiscono tramite un mestiere così nobile al buon riposo delle persone.
Il ciabattino
Altro mestiere, forse tra uno dei più antichi, documentato nel museo è il ciabattino, ovvero colui che esegue piccole riparazioni alle calzature. Calzolaio è invece chi si occupa della creazione di scarpe. Spesso però i due lavori vengono fusi in un’unica grande maestria che va dai semplici aggiustamenti alla realizzazione di una calzatura su misura.
Di origini antichissime, la figura del calzolaio è possibile rintracciarla sin dagli Antichi Egizi, i quali con foglie di palma e papiro riuscivano a costruire calzature utili per svolgere le funzioni quotidiane. Il vero riconoscimento si ebbe però nel Medioevo, quando il mestiere del calzolaio entrò a far parte a tutti gli effetti delle Arti Minori e delle Corporazioni delle Arti e dei Mestieri di Firenze, con l’intento di difesa e protezione della categoria, alla quale si applicavano anche delle regole precise da seguire. Nel 177o tutte le Corporazioni vennero soppresse per creare la Camera di Commercio.
Con gli anni Cinquanta del Novecento il mestiere del calzolaio perse via via importanza.
Attualmente però moltissime realtà, soprattutto nel centro Italia stanno riportando in vita la professione e il concetto di su misura abbinato alla calzatura, per rendere l’esperienza della camminata unica e confortevole, con un’attenzione al lato estetico e sostenibile del prodotto.
Tramite gli strumenti esposti al Museo Storico Etnografico di Romagnano Sesia è possibile identificare le molteplici operazioni per la realizzazione di una calzatura su misura: dalla preparazione delle forme alle cuciture finali.
La scarpa maggiormente indossata nell’Ottocento dalle classi più povere era lo zoccolo con tomaia in pelle e e spessa suola in legno rafforzata con piastrine metalliche per durare nel tempo. Mentre gli aristocratici erano soliti utilizzare scarpe in morbidi pellami.
La lavandaia
La fotografia d’epoca di Romagnano Sesia, del Canale Mora e dell’annesso lavatoio riescono a comunicare al visitatore la fatica delle donne piegate, con la schiena ricurva a lavare i panni.
Il mestiere della lavandaia, spesso affidato alle figure femminili della casa, rimase totalmente manuale fino all’avvento dei nuovi elettrodomestici, i quali permisero alle donne di risollevarsi da uno degli impegni quotidiani più gravosi.
Con ceste cariche di panni sulle spalle, signore e ragazze si recavano al lavatoio di paese o presso gli argini di fiumi e canali. Gli strumenti utili per smacchiare i panni erano pochi: sapone di Marsiglia, spazzola di saggina, un asse in legno inclinato, un base di appoggio per le ginocchia e tanta, tanta forza nelle braccia.
Diverse sono le raffigurazioni di artisti dal Settecento all’Ottocento che dedicarono alcune delle loro opere alle lavandaie e alle mansioni di pulizia quotidiana; da Pietro Longhi, a Jean François Millet a Paul Gaugin. Ognuno ha interpretato con forme e colori differenti questo antico mestiere.
Il bottaio
Data la numerosa presenza di viti nel territorio delle Colline Novaresi, di fondamentale importanza era la figura del bottaio. Richiesto in particolar modo dall’economia contadina e dai proprietari di vigneti, era un mestiere che doveva saper rispondere con un’elevata professionalità artigianale.
Il sellaio
Il sellaio era l’artigiano che fin dai tempi più remoti si dedicava alla realizzazione di accessori per cavalli. Con l’abbandono delle campagna, l’avvento di nuovi mezzi di trasporto, macchinari agricoli aggiornati e l’ingrandimento dei centri cittadini, la presenza dei sellai diminuì notevolmente.
Nel Museo viene ricordata questa nobile e particolare mansione.
Gli ambienti quotidiani
La cantina e l’osteria
La cantina è dedicata alla produzione e maturazione del vino, elemento portante dell’economia agricola delle colline novaresi. In esposizione bigonce e sgrappolatrici, tini e botti, tappatrici e bottiglie.
Attraverso una galleria fotografica con immagini d’epoca (risalenti tra Ottocento e metà Novecento) si accede alle ricostruzioni di ambienti tipici della vita quotidiana, sociale e familiare tra cui un’autentica e dettagliata osteria.
La scuola
All’interno del museo, in una piccola stanza è stata riprodotta un’aula scolastica del secondo dopoguerra.
La sensazione che si percepisce è di netta austerità. E’ subito evidente la grande cattedra del maestro in legno posta su un gradino sopraelevato per simboleggiare il potere autoritario. Di fianco ad essa una lavagna in ardesia con un lettering corsivo pressoché perfetto.
La bella scrittura aveva un ruolo predominante all’interno delle discipline scolastiche. Per progredire nella materia e nell’organizzazione del foglio venivano assegnati eserciti ripetitivi o disegni e cornicette da eseguire su quaderni a quadretti.
Fin dal periodo pre adolescenziale, soprattutto per le bambine, le attività casalinghe e tessili (ricamo, maglia) erano materie di studio. Ciò è testimoniato da un piccolo campionario nel quale è visibile la lavorazione del punto basso con la tecnica a uncinetto.
Presso Romagnano Sesia e i comuni limitrofi era fondamentale l’insegnamento delle arti tessili: la filiera della lana, della seta, della canapa e del cotone era una delle attività più floride dell’intero territorio.
Alle pareti sono presenti illustrazioni che mettono in risalto le regole da seguire all’interno dell’ambiente scolastico.
La fiorente industria e le tradizioni tessili
L’attività tessile è ben radicata nel territorio valsesiano.
La presenza di materie prime come lana e canapa consentirono uno sviluppo esponenziale manifatturiero.
Le prime attività erano prettamente artigianali e casalinghe, ma dalla metà dell’Ottocento le industrie tessili iniziarono a costituirsi sul territorio tra Biella e Vercelli, tra l’alta e la bassa Valsesia.
L’industria del cotone e della lana è sempre stata influente per Romagnano Sesia e i paesi circostanti. Le risorse idriche e le materie prime disponibili consentirono all’attività tessile manifatturiera di svilupparsi e di diventare un punto di riferimento in tutto il nord Italia. (Altro distretto era nel varesotto, con l’aziende tra Busto Arsizio e Gallarate, raccontato nel post del Museo del Tessile di Busto Arsizio).
Nel 1838 l’attività Manifatturiera Robbiati con la sua produzione di tela di cotone si insediò a Romagnano Sesia, dando lavoro a circa centocinquanta persone. Nel 1842 l’azienda Robbiati venne rilevata dalla Giovanni Bollati, decidendo di insediarsi a Romagnano Sesia per motivi funzionali e tecnici. Tra il 1845 e il 1870 è una delle aziende più all’avanguardia per l’uso di attrezzature e macchinari. In seguito ad un periodo di crisi fu però Botto Giuseppe & figli, imprenditori biellesi a rilevarla. L’azienda oltre a possedere altri stabilimenti sul territorio convertì la produzione dal cotone alla lana. Nel 1960 grazie a nuove collaborazioni essa cambiò il nome in Pettinatura Lane di Romagnano Sesia S.p.A., diventando leader nel settore.
Anche nell’adiacente Borgosesia si svilupparono diversi stabilimenti per la lavorazione della lana.
Le ultime sale del museo sono dedicate agli accessori e agli abiti borghesi e contadini risalenti alla fine del XIX e inizio XX secolo.
La prima sala della sezione è dedicata alla classe borghese nascente. L’industria tessile, cartaria e della porcellana consentirono nel territorio della bassa Valsesia un cambiamento radicale dal punto di vista economico e sociale. L’instaurazione di aziende con il conseguente rafforzamento del commercio e la nuova disponibilità di occupazione favorì un momento di benessere. Comparve una nuova classe sociale che si era arricchita con la nuova produzione: la borghesia.
Nell’allestimento sono presenti accessori che ben si prestavano al ruolo della nuova classe fiorente all’interno della società. Punzoni per cappelli, cartamodelli francesi, ventagli orientali, specchietti, spazzole, fermagli per le donne e ghette, calosce e buffi piegabaffi brevettati per gli uomini.
Protagonista dell’ultima grande sala, ad annunciare la sezione dedicata alle attività femminili di cucito e di ricamo, è un telaio a mano valsesiano di fine Seicento e inizio Settecento, utilizzato per tessere canapa e lana.
Dopo le seguenti lavorazioni di essiccazione, sfogliatura, macina, cardatura e filatura della canapa, si procedeva con la preparazione dell’ordito e la conseguente tessitura. Le pezze venivano utilizzate per la schirpa (dote), oppure tagliate per confezionare camicie e abbigliamento domestico. La fibra più grossolana rimanente era usata per preparare robuste corde o per formare la suola delle tipiche pantofole valsesiane.
Attorno al grande telaio sono stati disposti abiti da giorno e da sera, macchine per cucire, campionari tessili, illustrazioni oltre a strumenti utili per le attività casalinghe di maglia e cucito.
Gli abiti da giorno, da sera e da sposa risalgono ad un arco di tempo tra il 1840 e il 1920, come si nota dalla diverse fogge. Probabilmente la provenienza di alcuni di questi abiti è sicuramente d’oltralpe, considerando i continui scambi che la borghesia in quegli anni intesseva con il resto d’Europa.
La mia visita tra alta e bassa Valsesia mi ha permesso di conoscere, anche se per poco tempo, curiosità e tradizioni di un popolo antico, ancora oggi ricco di segreti e consuetudini non note.
Sono affascinanti le vicissitudini che sono presenti dietro alle case walser, oppure la forza creativa e tecnica di un piccolo punto o ancora la diversità tra un abito tradizionale e l’altro a distanza di pochi chilometri.
Tramite la visita tra alta e bassa Valsesia, da Rima al Museo Etnografico di Romagnano Sesia ho percepito l’importanza di culture come quella walser e come quella di tante altre in tutta Italia. I musei, le scuole, le associazioni andrebbero ulteriormente aiutate nella loro scelta di salvaguardia e conservazione perchè solo conoscendo il passato si può affrontare il futuro con consapevolezza.
La cultura walser è ricca, intricata e sicuramente tanti altre curiosità sono da scoprire.
Spero di poter avere ancora l’opportunità di conoscere altre realtà della Valsesia e di poterle documentare per preservare integralmente scoperta dopo scoperta, punto dopo punto la comunità walser.
Siete mai stati in Valsesia?
Fatemi sapere!
Valentina
Bibliografia e siti per la stesura del post:
Valsesia T., Restelli F., Walser. Il fascino. Il mistero., Macchione Editore, Azzate (VA), 1999
Zanzi L., Rizzi E., I WALSER NELLA STORIA DELLE ALPI, Edizioni Universitarie Jaca, Milano, 1987
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Thank you
[…] In una tiepida giornata di Giugno, nella Valle Mastallone, Piemonte, protagonista di Fobello è stato il merletto puncetto. […]