Attenzione, spoiler all’interno del post! (:
“Qual’è stata l’ultima serie tv che avete guardato?” – questa è stata la domanda di inizio corso del prof. di Pedagogia in università, rivolta a noi alunni.
Netflix e tutte le piattaforme streaming fondate in questi anni hanno sostituito la narrazione orale, che in antichità era affidata agli oratori nelle grandi piazze. Narravano di miti e di gesta eroiche, le quali vedevano come protagonisti giovani ragazzi dalle forze divine. Le storie che prima venivano raccontate nei luoghi pubblici, o attorno al focolare nelle sere d’inverno o mentre si tesseva per trascorrere il tempo, sono state ora sostituite da formati digitali. La figura narratrice è stata sostituita dal supporto tecnologico (che sia televisione, pc, tablet ecc), dotato di una connessione internet utile per il collegamento a piattaforme, veri e propri contenitori di narrativa. Netflix ha preso il posto dell’oratore o ancora in modo più diretto, della nonna che racconta la fiaba della buonanotte. Nonostante siano cambiati o si siano evoluti i mezzi di trasmissione della narrazione, quello che rimane stabile e non scardinabile è il racconto in sé, e il motivo per cui un mito, una fiaba o una serie televisiva riescono ad affascinare e a tenerci incollati alle labbra di chi parla, o in questo caso (e soprattutto in questo periodo) allo schermo. Ma come mai siamo così affamati di racconti e di serie tv? Come mai si fanno le maratone notturne per finire le serie che ci tengono così attratti, sullo spine? Come ho già accennato, il prodotto che Netflix e altre piattaforme ci propongono non sono altro che delle narrazioni, divise in puntate (proprio come i capitoli dei libri) di una durata variabile, dai 30 ai 60 minuti circa.
Quasi tutti i racconti di base non sono altro che l’esplicazione del percorso della vita del protagonista. Il personaggio principale è un eroe che deve compiere una serie di azioni per riportare la pace o l’ordine nel regno dal quale proviene, oppure può essere un/una fanciullo/a abbandonato/o o che ha perso i genitori e che quindi affronta varie tappe nel corso della sua esistenza per venir fuori dalla situazione di disgrazia iniziale. Questi “plot point” possono essere identificati con delle prove che il protagonista deve superare, o semplicemente consistono in incontri fortuiti o no che farà lungo il suo percorso, che lo porteranno ad una situazione superiore rispetto a quella iniziale, al ripristino dell’ordine nel regno, ad una situazione di rivincita finale o ad un epilogo felice. Il protagonista intraprende un viaggio, parte alla ricerca di un qualcosa a lui caro, con tutte le paure del caso. Avrò dei ripensamenti, ma lungo il percorso incontrerà dei mentori o degli aiutanti che gli daranno una mano ad affrontare prove, ostacoli e antagonisti che condurranno il personaggio principale negli abissi più profondi. Grazie a poteri, talismani, magie e in buona parte merito agli aiutanti sconfiggerà il drago e finalmente acquisterà la felicità finale. Come affermò lo studioso russo Vladimir Propp nel suo testo Morfologia della fiaba, tutte le narrazioni presentano sempre lo stesso schema composto da funzioni (azioni) che si trovano in ogni racconto, le quali danno vita ad una struttura base, formula archetipica. Anche lo storico Joseph Campbell affermò lo stesso pensiero, con il suo viaggio dell’eroe. Questo ragazzo dalle forze divine con il suo viaggio ha percorso secoli e secoli, ed ogni volta, in ogni narrazione è presente. E’ un elemento fisso da sempre, da quando l’uomo ha avuto uno scopo (semplice o complesso) nel corso della sua vita. Questo andare alla ricerca di uno scopo non è altro che il percorso che ognuno di noi fa; tutti crediamo in qualcosa, tutti affrontiamo delle prove, tutti abbiamo accanto a noi aiutanti e antagonisti, tutti sbagliamo e cadiamo, tutti combattiamo contro le nostre debolezze e paure, tutti ci risolleviamo e tutti noi arriviamo ad una soluzione migliore, ad una felicità, ad una situazione di pace interiore e di nirvana. Arriviamo ad un appagamento, ci eleviamo ad un livello più alto.
Questo è quello che esattamente avviene in una narrazione, in un libro o in una serie televisiva. Noi ne siamo completamente coinvolti; le immagini sullo schermo raccontano di noi, del nostro percorso di vita, dei nostri sbagli, della nostra felicità. Racconta dell’uomo, di noi, di me e di te. Netflix parla di noi.
Spesso ci immedesimiamo nel protagonista, nei suoi gesti, nelle sue azioni, nei suoi sentimenti, nei suoi pensieri. Questo è il motivo per cui le serie tv rapiscono il nostro tempo. La preferenza per un tipo di prodotto o un altro dipende da quanto ci rispecchiamo nel protagonista o nei personaggi, di quanto c’è di noi in loro. Tutti noi riusciamo a sentire una forte affinità soprattutto nel momento in cui il prodotto che andiamo a guardare, si basa su una trama o su un romanzo di formazione, cioè quel genere (letterario nel caso di un libro) che riguarda l’evoluzione del protagonista verso l’età adulta, verso una maturazione.
Il romanzo The Queen’s Gambit rientra proprio in questa categoria. Pubblicato nel 1983 da Walter Tevis ripercorre le vicende della giovane americana Elizabeth Harmon, bambina prima e donna poi, prodigio degli scacchi. La narrazione contiene non solo alcuni aspetti autobiografici dell’autore, ma anche riferimenti a Robert James Fischer, detto Bobby, famoso scacchista statunitense, unico americano ad essersi affermato sui russi per un titolo mondiale. Leggendo la sua biografia, si capisce come fosse un ragazzo solitario, con scarse abilità sociali e con una profonda ossessione per la disciplina degli scacchi.
La serie The Queen’s Gambit (La Regina degli Scacchi), fruibile dal 23 ottobre 2020 su Netflix che vede come regista Scott Frank e come protagonista l’attrice Anya Taylor Joy (conosciuta per The Witch, The Miniaturist e Emma), da un’immagine chiara non solo dello scacchista Bobby o dell’autore del libro, ma porta anche a riflettere su temi cardine degli anni Sessanta e Settanta, così attuali e visibili tutt’ora nella società contemporanea. La solitudine, il valore dell’amicizia, la crisi d’identità, la femminilità, la scoperta di sé stessi, la morte, l’abuso di sostanze, l’amore, l’adozione, l’emancipazione e la passione per una disciplina o un’attività sono chiaramente esplicati.
Beth, la protagonista seguirà la sua passione per gli scacchi, subirà delle sconfitte di gioco e morali, incontrerà degli aiutanti, toccherà gli abissi, ma ci sarà il suo “angelo custode” (Jolene) ad aiutarla; riuscirà ad alzarsi e a raggiungere un senso di appagamento e di felicità che la porteranno non solo a rapportarsi con il mondo esterno, ma diventerà più loquace anche con le persone che prima non riteneva alla sua altezza, ma che comunque e nonostante tutto le sono state vicine.
Forse è proprio per questo che 62 milioni di persone (e continueranno a crescere) tramite un passaparola, si sono trovati ad affrontare il percorso di vita di Beth; anche se non ne sapevano nulla di scacchi, qualche evento della vicenda sarà capitato anche a loro, si saranno rivisti in qualche gesto, in un dettaglio, nei gesti della protagonista o in quelli degli altri personaggi.
E’ stata una serie televisiva così tanto incisiva che il Brooklyn Museum di New York, ha dedicato una mostra virtuale dei look, realizzata in collaborazione con Netflix e curata da Matthew Yokobosky.
Le scenografie curatissime, i luoghi, le inquadrature (molto spesso centrali, alla Wes Anderson), le atmosfere, le musiche, i dettagli minuziosi, hanno reso la serie (impostata come se fosse un film ma con i tempi di una miniserie) accattivante e affascinante.
Elizabeth, con lo sguardo magnetico e profondo riesce a portarci nella scena seduti di fianco a lei o di fronte, ma non nella sua testa; non riusciamo mai a capire come potrebbe muoversi. E’ sicuramente un aspetto di imprevedibilità nella prevedibilità della trama. Beth è misteriosa, suscita curiosità, tanto che tutti i ragazzi/compagni di scacchi rimangono invaghiti e attratti, non solo per la sua bravura con gli scacchi ma anche per la sua personalità. La giovane bimba di 9 anni, fino a quando diventa una giovane donna affronta un lungo percorso che la condurrà ad un appagamento e ad una pace interiore, ma in questi anni sarà continuamente vittima di crisi d’identità. Esse non riguardano solo i repentini cambi di umore o di mentalità, comprenderanno anche il suo corpo (da bimba diventerà una donna) e soprattutto il suo abbigliamento. Come tutti gli adolescenti Beth si trova a sperimentare con il suo stile, mettendolo ogni volta in discussione per seguire le mode o semplicemente per testimoniare involontariamente i conflitti che sente dentro di sé e che magari vorrebbe urlare al mondo esterno. I vestiti e i capelli mostrano come la protagonista da un episodio all’altro riesca ad acquisire sempre più sicurezza in sé stessa, da bimba con frangetta rossa e calzine e scarpine bianche a donna elegante e coscienziosa. Gabriele Binder, costumista tedesca non ha portato nulla di innovativo all’interno della serie, ma quello che è certo è il lavoro perfetto e minuzioso che ha saputo costruire intorno alla protagonista Beth. Ogni capo testimonia un’atmosfera, una situazione, una vicenda, uno stato d’animo; ma soprattutto alcuni capi e certi particolari mostrano l’ossessione degli scacchi per Beth. Non solo nella mente, o sul soffitto, anche addosso, tutto rimanda alla scacchiera. Dalla mente alle camicette. Gli abiti ripercorrono circa un decennio, dal 1957 al 1968. Le forme, i colori, i dettagli, le silhouette, scorrono dieci anni di moda, nei quali essa si è evoluta insieme al contesto sociale, politico ed economico.
Molto spesso quando si pensa agli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta si ha un’immagine riassuntiva dell’abbigliamento di quegli anni, una sorta di icona che viene associata ad ognuno di essi. L’abbigliamento non è passato repentinamente dagli Cinquanta con la gonna a ruota, agli anni Sessanta con la minigonna e agli anni Settanta con le frange e i pantaloni a zampa. Assolutamente no. Bisogna considerare gli eventi di questi anni: la Guerra Fredda che caratterizzava il periodo post-bellico che poneva i rapporti delle due grandi potenze vincitrici, Stati Uniti e Unione Sovietica, sul filo del rasoio, ma anche la rivendicazione dei giovani e i loro scontri con il prevedibile, il borghese, il già imposto a priori, la società antica dei genitori, o ancora, l’influenza assordante dei media, l’arte astratta e poi l’arte popolare, le icone dello star system, l’assassinio di John Kennedy, la musica, le subculture, l’emancipazione femminile, i grandi concerti e gli scontri giovanili a cavallo tra la fine degli anni ’60 e gli inizi degli anni ’70. Tutti questi eventi rivoluzionarono giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno la moda.
Dal 1957 al 1968 la moda ebbe un cambiamento repentino.
Se gli anni Cinquanta divennero famosi per l’Alta Moda, gli anni Sessanta invece videro la nascita del pret-à-porter e della prima produzione di massa.
Quasi tutti i paesi partecipanti al secondo conflitto mondiale, uscirono dalla guerra con gravi perdite umane ed economiche. Nel 1947 l’America istituì il piano Marshall, il quale diede un forte impulso all’economia americana e dei paesi ad essa strettamente collegati.
Dopo l’abbigliamento povero degli anni della guerre le donne sognavano linee morbide, avvolgenti, volevano sentirsi viziate e coccolate. Ad accontentarle fu Christian Dior il quale nel 1947 presentò il New Look. C’era il bisogno di dimenticare gli orrori della guerra e questo nuovo stile, con la forte influenza che ebbe sull’atteggiamento, sui gesti e sul modo di comportarsi era ciò che la società anni Cinquanta chiedeva. Anche se durante la guerra le donne dovettero indossare pantaloni e divise da lavoro, subito si riappropriarono del ruolo di donna di casa (in modo ancora più enfatizzato), assumendo un ruolo ben preciso all’interno della società di stampo patriarcale. La buona madre di famiglia aveva una bella casa, una cucina con gli elettrodomestici di ultima generazione in modo da essere sempre ordinata anche durante i lavori domestici. In fatto di abbigliamento, la diffusione dei grandi magazzini negli anni Cinquanta (che vendevano dai frigoriferi agli bigodini), consentì non solo di avere abiti immediatamente pronti, ma di ricalcare anche lo stile delle donne ricche che indossavano abiti di alta moda di importanti stilisti. In realtà questa continua tensione al consumismo indotto dalla pubblicità e la continua propensione delle donne verso la perfezione fu un’arma a doppio taglio; esse raramente potevano avere aspirazioni future che andassero oltre le mura di casa. Le donne seguivano le regole imposte dai manuali di buona condotta casalinga, in cui erano proposti “tutorial” per diventare una perfetta moglie e madre. Questi giornali aiutavano le donne nella loro impresa giornaliera della scelta dell’abito, del colletto giusto e del trucco adatto. Tutte le donne sembravano essersi omologate nel seguire le regole imposte. Il New Look e le linee da esso derivate e provenienti da altri stilisti (come Cristobal Balenciaga, Pierre Balmain e Jacques Fath), erano caratterizzate da spalle morbide e spioventi, fianchi rotondi e vite molto sottili. Si portavano anche chemisier e fili di perle, per le occasioni non ufficiali, in cui era consentita più “comodità”. Durante la fine degli anni cinquanta la richiesta d’alta moda iniziò a diminuire. L’atelier di Dior continuò anche dopo la sua morte e nel 1958 venne nominato il giovane Yves Saint Laurent come direttore creativo.
Qualcosa stava cambiando. Il boom delle nascite del dopoguerra ebbe la conseguente crescita demografica che negli anni Sessanta si tradusse con la nuova generazione di teenager. Essi conobbero maggiore libertà, benessere e disponibilità economiche. Ciò si tradusse nell’esigenza di un prodotto giovanile non ancorato alla moda dei genitori che rispecchiasse anche i nuovi valori dei ragazzi. In questo clima nacquero le sottoculture (gruppi di persone, soprattutto giovani che con il loro atteggiamento, ideali e abbigliamento si distinguevano dalla più larga cultura esistente). Essi iniziano a rivendicare la propria identità e per la prima volta fanno sentire la loro voce. Si creano così gruppi diversi composti da giovani: i rockabilly, i teddy boys, i rockers e i mods. Gli adolescenti andavano alla ricerca di prodotti che potessero esprimere le loro idee e capire il clima culturale, in particolare, a Londra fu Mary Quant che nella sua boutique Bazaar (aperta nel 1955) proponeva un look femminile composto da abiti in jersey, scamiciati sopra al ginocchio, ispirati ai look dei bambini, con calze alte fino alle ginocchia, dai colori sgargianti, uniti da un’allure influenzata dai beatnik americani e dai parigini della Rive Gauche. I negozi di Mary Quant e Barbara Hulanicki divennero dei riferimenti per le teenager, prime fra tutte le giovani e magre modelle con i loro occhi a cerbiatto, come Twiggy e Jean Shrimpton che indossavano gli abiti sui set di David Bailey e Richard Avedon. Tutte le ragazze della Swinging London impazzivano per questo stile, per le nuove icone, non solo della moda, ma anche della musica, come i Beatles. La moda inglese raggiunse gli Stati Uniti a metà degli anni Sessanta quando anche la rivista Life si interessò del fenomeno. Determinante in questi anni fu anche la conquista dello spazio, con il privo volo nel 1961 e con la conquista della Luna nel 1969. Alcuni stilisti captarono i segnali dell’era spaziale, come André Courrages, Pierre Cardin e Paco Rabanne. Nel 1962 Yves Saint Laurent dopo l’esperienza da Dior aprì la sua casa di moda a Parigi; è del 1966 il lancio della collezione Rive Gauche, che con i suoi prezzi più abbordabili diede inizio al pret-à-porter. Lo stesso anno lo stilista propose lo smocking sulle passerelle dell’haute couture, riproponendolo anche ad una cifra inferiore per la sua linea Rive Gauche. Sul fronte americano i giovani negli anni Cinquanta portarono avanti per lungo tempo il loro look preppy e ivi league, proveniente direttamente dalle divise adottate nelle prestigiose università americane, anche se i rockers e i rockabilly rivendicavano la loro posizione. Le influenze europee arrivarono anche nel territorio americano e dagli inizi degli anni Sessanta la sottocultura dei beatnik si impose con un’adesione alla vita su modello dello scrittore Jack Kerouac, la quale confluirà poi nel movimento hippy, il quale ebbe la massima adesione alla fine degli anni Sessanta.
Dopo questo riassunto di storia della moda fino alla fine degli anni Sessanta, veniamo ora all’analisi dei costumi di The Queen’s Gambit:
The Queen’s Gambit, Episodio 1 – Aperture
La prima puntata della serie – Aperture – si apre con l’immagine di una bimba minuta di nove anni (è il 1957) magicamente sopravvissuta ad un incidente mortale, in cui la giovane mamma, Alice Harmon perde tragicamente la vita in uno scontro frontale. Elizabeth rimane immobile aspettando i soccorsi, senza neanche un graffio, sulla griglia metallica del ponte, in una scena perfettamente simmetrica, quasi come una fotografia di Lewis Hine. Il volto della bambina non rivela nulla, non lascia trasparire alcuna traccia di sentimento. La bimba indossa un vestitino di lino verde pallido (il colore – afferma Gabriele Binder – ha una connotazione importante), con il colletto piatto, a contrasto bianco, con un’allacciatura a polo con bottoni a quattro fori in madreperla arricciato leggermente sotto al seno, a giromanica. Sul fondo dell’abito è cucita una balza che sembra essere di lino ma di un verde più scuro (probabilmente cucito successivamente per la mancanza di tessuto principale per continuare con la stoffa del sopra). Esso risulta essere chiaramente troppo piccolo per un bimba di nove anni, infatti sembra fare difetto e tirare sulla parte superiore. (Negli episodi successivi si nota in alcuni flashback che Beth indossava lo stesso abiti anche durante gli anni precedenti, probabilmente all’età di 6/7 anni). L’abitino probabilmente fu cucito dalla madre, come anche il ricamo “Beth”, unico elemento ricco. La scritta Beth, posta sulla parte sinistra dell’abito, proprio in prossimità del cuore, è ricamata con un color magenta, inscritta in un cuore astratto composto da tante piccole foglioline rosa. L’abito di certo non è riconducibile ai vestiti alla moda per bimbe degli anni ’50, con pizzi e passamanerie, con maniche a sbuffo, dai colori sgargianti. La bambina indossa per accompagnare il tutto delle calzine in cotone, che invece sembrano essere troppo grandi e ballerine rasoterra, bianche, con punta a mandorla, con il laccetto di chiusura/apertura sul retro. Una frangetta ramata con una treccia morbida scesa sulla nuca inquadrano il pallido viso.
Rimasta orfana (non conosciamo l’identità del padre e dove sia), la piccola Beth viene portata in un orfanotrofio femminile Methuen, nel Kentucky.
Qui viene accolta dall’istitutrice Helen Deardoff, che accompagna la bimba a riporre nel dormitorio i suoi oggetti personali. Proprio nella stanza, tramite gli ordinati copri letti avviene l’incontro con gli scacchi, involontario per la piccola Elizabeth. E’ nel suo letto che tramite le pastiglie Xanzolam, un tranquillante che viene dato a tutte le bambine, che la bimba sul soffitto riesce tramite delle visioni a giocare a scacchi dopo aver velocemente intravisto il custode dell’orfanotrofio William Shaibel, nel seminterrato intento nel gioco.
Una volta arrivata nella struttura femminile Beth è costretta ad abbandonare la sua identità per omologarsi con le altre ragazzine. La lunga treccia viene tagliata per lasciare il posto ad un caschetto pari, sotto alle orecchie, mentre l’abito (usurato ma con un grande valore effettivo) viene portato al macero per sostituirlo con capi più comodi e “adatti” all’ambiente.
In un flashback delle puntate seguenti appare la madre Alice Harmon che ricama il nome Beth sull’abito, affermando, rivolta alla bimba “Così saprai sempre chi sei”. Purtroppo così non sarà. L’abito viene bruciato. Beth deve ricominciare senza la sua cara mamma. Al suo posto a tenerle compagnia ora però ci saranno gli scacchi.
In orfanotrofio, in una scena Beth è in fila per prendere le “vitamine” che vengono somministrate quotidianamente: verdi per combattere l’ansia e rosse per favorire la robusta costituzione. (Beth diventerà dipendenti dalle pillole verdi, arrivando ad abusarne. Esse consentiranno alla bimba di entrare durante la notte in uno stato di trance e di riuscire a giocare le partite di scacchi sul soffitto). B
eth ha assunto ora una diversa fisionomia, non è più esteticamente la bimba conosciuta ad inizio puntata. I capelli appaiono ora dritti, ordinati fermati ai lati da due piccole forcine nere. L’abitino in lino ha lasciato il posto ad un pinafore dress o scamiciato verde bottiglia con taschine quadrate cucite sulla gonna davanti, con apertura sulle spalle tramite dei gancini. Probabilmente faceva parte del vestiario che l’orfanotrofio possedeva; le forme non richiamano certamente gli anni cinquanta, ma sembrano provenire dagli anni Quaranta, come il look proposto dal cartamodello McCall 5373 che presenta invece di un colletto tondo, un colletto squadrato. Sotto lo scamiciato una camicina a bastonetto ocra e panna, probabilmente in cotone garzato, con un piccolo colletto con listino.
Il guardaroba della struttura Methuen non intendeva essere di certo all’ultima moda.
Nel corso della prima puntata Beth indossa altri due scamiciati. Uno marrone probabilmente in gabardine di lana con gonna svasata al ginocchio e pettorina con tagli ondulati, con bottoni a quattro fori in tinta sulle spalline. Ai piedi calzine morbide e derby marroni. Il modello della camicia sottostante è molto simile a quella precedente, color panna a tinta unita con il listino del colletto leggermente più alto.
Beth inizia a fare pratica con la disciplina degli scacchi grazie all’insegnamento del Signor Shaibel, custode dell’orfanotrofio. Egli presenta alla bimba il Signor Ganz, organizzatore del circolo degli scacchi delle scuole superiori, il quale si renderà immediatamente conto, dopo poche partite, del talento della bambina, tanto da invitarla a giocare una simultanea con il gruppo di gioco della scuola superiore.
E’ qui che Beth indossa il suo primo abito con pattern a scacchi. Il vestitino tinto in filo in lana è composto da una parte superiore con scollatura ampia e rotonda e gonna ampia con due sfondi piega sul davanti. Sotto l’abito la camicia color panna e sopra un cardigan over grigio, abbastanza anonimo. Ai piedi calzine e derby marroni.
Gli alunni del circolo degli scacchi si presentano di fronte alla bambina con superficialità, pensando di sconfiggerla in poche mosse, ma resteranno a bocca aperta per le sue capacità e il suo talento.
I ragazzi partecipanti hanno un abbigliamento che richiama il look ivy. Questo stile prendeva come riferimento le uniforme delle scuole statunitensi più prestigiose; dai college della East Cost, come Harvard o Yale. Gli universitari di queste famose istituzioni, avevano un abbigliamento preciso ed ordinato e anche i piccoli dettagli, come i marchi indossati (Brooks Brothers, tra quelli più gettonati) o lo spacco posteriore sovrapposto delle giacche erano elementi fondamentali, che potevano fare la differenza e ricondurli di conseguenza in una cerchia ristretta di persone. La versione più casual era composta invece da pullover, chiamati varsity o letterman; mostravano chiaramente la provenienza da un’università prestigiosa o da circoli sportivi ai quali questi ragazzi partecipavano, sia extrascolastici, come il golf e il tennis (che mostravano chiaramente la provenienza da una famiglia agiata) o programmi di attività fisica scolastica. Altro elemento fondamentale erano i pantaloni di colore cachi o sabbia e ocra, solitamente chinos, polo con colletto e bottoni, mocassini (modello Weejuns della Bass) e scarpe da tennis.
Sono gli anni in cui Lacoste inizia ad esportare la sua polo negli Stati Uniti con il logo simbolo del coccodrillo e di aziende come la J.Press, Chipp, Sills of Cambridge e Fenn Feinstein che producono esclusivamente capi chiaramente ivy.
Bisogna considerare che la scuola superiore probabilmente risentiva in un modo meno preponderante lo stile delle università, anche se alcuni elementi in comune si possono trovare lo stesso nel gruppo degli scacchi del Signor Ganz. Tra questi i pantaloni chinos color cachi e nelle tonalità dei beige, spesso con orlo alto in modo da lasciar vedere i mocassini o le scarpe da tennis. Anche i capelli rimandano allo stile ivy league: conosciuto come harvard clip, princeton o ivy league, il taglio era abbastanza lungo da consentire di fare la linea laterale, lasciando i capelli più corti ai lati e sul dietro. Questo modo di portare i capelli era stato adottato dall’esercito americano durante il secondo conflitto mondiale per questione di ordine e di pulizia.
The Queen’s Gambit, Episodio 2 – Scambi
La seconda puntata – Scambi – si apre con l’immagine di Beth e Jolene, una ragazza di colore scontrosa e quasi arrogante ma che nell’ultima puntata si rivelerà essere preziosa, un “angelo custode” per la protagonista. Jolene con le sue trecce scure addolcite da piccoli fiocchi sembra provenire direttamente dalle illustrazioni di Norman Rockwell, protagonista del Realismo Americano. I capelli della ragazzina richiamano la bambina ritratta nell’opera Il problema con cui tutti noi viviamo del 1964, opera emblematica per il dibattito sul razzismo. Esse sono sull’uscio della porta della sala da pranzo, che ripercorrono l’ultima scena della prima puntata. In quest’ultima Beth in astinenza da pillole verdi (dopo che vennero abolite ai minori dallo stato nel 1958) scardina la serratura della farmacia e si impossessa del vaso con le pillole, arrivando a non reggersi più in piedi e a svenire con tutto il contenitore che si spaccherà in mille pezzi.
Nella seconda puntata, dal minuto 2.15, Beth (interpretata ora da Anya Taylor Joy) e Jolene sono diventate delle adolescenti; la piccola Harmon ha ora 15 anni (è il 1963). Per Elizabeth è la giornata decisiva, viene adottata dalla sua nuova famiglia, il Signor Wheathley e la Signora Alma Wheatley. Beth lascia l’orfanotrofio con dispiacere, ormai con Jolene si era instaurato un bel rapporto; ma non deve abbandonare solo la sua amica, anche il suo mentore, il Signor Shaibel, suo insegnante di scacchi, che prima di tutti ha creduto in lei.
La ragazza con il suo solito scamiciato, ma in taglia più grande ed un cerchietto fiorato (donatole dall’orfanotrofio per renderla più dolce e graziosa), dopo aver raccolto i suoi oggetti personali in una valigia (con interno la fodera a scacchi), si trova catapultata nell’atrio della sua nuova casa. Qui Beth si guarda intorno incuriosita; alle pareti carta da parati con piccoli fiori che creano un disegno geometrico e appesi i quadri di Rosa Bonheur, pittrice francese famosa in Francia, Regno Unito e Stati Uniti. Ella fu un personaggio rappresentativo nel corso dell’Ottocento, per il suo stile di vita eccentrico e fuori dai canoni standardizzati del secolo. I suoi dipinti rappresentavano principalmente la natura, dalla lavorazione nei campi ai liberi animali selvatici. Le stampe di quest’artista possono essere interpretate come un’anticipazione dell’emancipazione femminile che da lì a poco avrebbe caratterizzato gli anni Sessanta.
Beth viene accompagnata dalla madre adottiva nella sua stanza. Un’inquadratura centrale fornisce la visione d’insieme della cameretta. Ciò che attira è la carta da parati rosa con pattern a quadri, che fa da contrasto a quella retrostante a fiori con una gamma cromatica che va dagli arancioni ai turchesi. La moquette rosa incisa è in tinta con le pareti ed il tutto è racchiuso dal tendaggio a fiori con nappine del letto a baldacchino. Beth è incredula. Il vestito marrone con l’aggiunta di un cardigan verde smeraldo stonano con l’ambiente.
Elizabeth scende al piano inferiore ed incontra la madre adottiva al pianoforte ancora vestita da notte. In testa una cuffia per raccogliere i capelli avvolti ai bigodini ed un soprabito per la notte, trapuntato, monopetto, dalla linea dritta fino al ginocchio, con fiori lilla e rosa stampati su fondo verde con bottoni tondi rivestiti, molto simile al cartamodello Simplicity del 1964. In scene successive Alma indossa anche dei sabot rosa con piumette che formano un pon pon vaporoso sul davanti, con un piccolo tacco.
Il primo giorno delle superiori, presso la Fairfield High School (realmente è la Western Technical Commercial School in High Park North a Toronto), Beth indossa esattamente gli stessi abiti di quando ha lasciato l’orfanotrofio con l’unica differenza che le forcine hanno lasciato il posto a mollette nere ancora più evidenti.
Elizabeth si fa subito notare per la sua conoscenza dell’aritmetica, ma anche per i suoi abiti, totalmente fuori moda, tanto da essere presa in giro e derisa dalle sue compagne di classe, le quali vantano un’alta reputazione nella scuola, nonché fondatrici del gruppo delle “Mele Verdi”, in cui le ragazze che vi aderiscono indossano solo maglioncini di cachemire colorati. Beth chiaramente capisce che tutti la additano per il suo look, ed inizia a riflettere che anche nella scuola superiore tutti sono omologati, tutti hanno le stesse scarpe, le saddle shoes bianche e nere. Tutti hanno uno stile omogeneo, proprio come tutti nell’orfanotrofio indossavano la stessa divisa.
L’abbigliamento tipico delle teenager che frequentavano il college era chiamato bobbysoxer, termine che veniva usato per indicare le ragazze fan dei cantanti swing (il termine viene dall’uso di ballare con le calze, o bobby socks sul pavimento della scuola). Tra i capi preferiti erano presenti i golfini a maniche lunghe o corte, i dolcevita e i cardigan attillati dai colori pastello, spesso impreziositi da bottoni gioiello o da piccoli ricami in filo, con paillettes o perline in vetro. In alcuni casi poteva esserci ricamato anche un barboncino (anche sulle gonne), simbolo di grazia. Spesso erano indossati con camicie con il colletto alla peter pan dai bordi arrotondati. Questi maglioni potevano essere abbinati con gonne circolari, pantaloni alla pescatora o blue jeans (prima indossati dalla sottocultura dei rockabilly, poi comparsi in film tra cui Gli Spostati con Marilyn Monroe del 1961, divennero presto un emblema di giovinezza, indossati anche dalle ragazze con maglioncini e camicette). Le gonne a ruota o a pieghe fermate da cuciture erano i capi preferiti dalle teenager da abbinare ai graziosi pullover. Spesso avevano anche una sottogonna che lasciava intravedere passamanerie e bordure di pizzo. Ad accompagnare il look le saddle shoes, scarpe tipo oxford con pannello a forma di sella di altro colore che attraversava il collo del piede. I capelli erano ondulati, vaporosi sopra le spalle spesso tenuti fermi da cerchietti. Il viso ben evidente, da brava ragazza era reso più attraente dal make up, che doveva fornire occhi radiosi e pelle trasparente. Le teenager con le loro ricche mancette erano diventate delle consumatrici accanite di prodotti cosmetici. Rispetto al trucco delle madri, molto artificiale, esse optavano per labbra dai contorni morbidi, meno netti, ombretto pastello e una linea di matita o di eyeliner.
Nei giorni seguenti Beth e la madre si recano presso il grande magazzino Ben Snyder a Lexington, realmente esistito. (Le scene all’interno del magazzino sono state girate presso il negozio Humana Vintage 3 Frankfurter Tor a Berlino). Ben Snyder fu un commerciante russo che nel 1891 immigrò negli Stati Uniti e fondò nel 1907 insieme al padre Marcus i grandi magazzini che portavano il loro nome. Essi nel 1935 aprirono lo store a Lexington; la loro attività crebbe talmente tanto che nel 1983 si potevano trovare negozi Snyder a Louisville, Lexington, Bowling Green, Paducah e Evansville.
L’interno dei magazzini Snyder, nella serie, ricalca i grandi department store degli anni Cinquanta che avevano spopolato in tutti gli Stati Uniti. La madre va diretta al piano superiore, dove sono presenti gli abiti con il 60% di sconto, probabilmente ultime taglie. In questo caso è Alma che sceglie i capi per Beth. Uno scamiciato blu oceano di lana con una sorta di martingala/cintura in vita dello stesso tessuto fermata con bottoni in tinta e uno sfondo piega sia sul davanti che sul dietro (gli abiti iniziano ad essere più lineari rispetto agli anni precedenti). Il colletto della camicia bianca a maniche corte è aperto, tenuto fermo da un cardigan azzurro ampio e dritto, molto simili ai modelli proposti dall’orfanotrofio. Oltre a questi capi anche un soprabito con linea leggermente ad A, probabilmente in cotone – poliestere foderato, che assolutamente non da l’idea di essere caldo.
Un dettaglio particolare della scena della prova degli abiti, sono la carta da parati e la del camerino chiaramente di ispirazione anni Cinquanta.
I fifties sono associati spesso ad una decade con la presenza di stampe molto forti, usate per gonne, pantaloni casual e camicie maschili, abiti. Esse spaziavano da fiori a piccoli e ripetitivi pattern. Cerchi con triangoli, trapezi allungati connessi con forme di diverso colore e dimensione, oppure stampe con tulipani, rose, calendule, adatte per cappottini da notte (vedi sopra la coprivestaglia di Alma) e gonne a ruota. Famose erano le stampe e gli abiti dell’azienda Horrockses Fashion o della designer tessile britannica Lucienne Day, laureata nel 1940 presso il dipartimento di Printed Textiles del Royal College of Art di Londra.
Anche se la scena probabilmente è ambientata nel 1963, il camerino richiama gli anni Cinquanta.
Nei giorni seguenti la madre chiede a Beth di procurarle le pastiglie che il medico le ha prescritto. La ragazza va dal tabaccaio/farmacista Bradley’s e viene catturata dalla rivista Chess Review, che sfoglia accuratamente e che alla fine per mancanza di soldi ruberà furtivamente. Beth si accorge che Alma fa uso di Xanzolam (le pastiglie verdi dell’orfanotrofio) per sconfiggere l’ansia. Ritornerà ad assumerle anche lei.
Grazie ai soldi che il Signor Shaibel le ha prestato, Beth riesce a partecipare al suo primo torneo presso la Herny Clay High School al Campionato Statale del Kentucky del 1963. Qui Elizabeth viene accolta inizialmente, da tutti i ragazzi del campionato (tutti maschi a parte una ragazza) con indifferenza, senza essere presa sul serio, tanto da inserirla nei principianti. Uno dopo l’altro la ragazza sconfigge i suoi avversari fino a trovarsi faccia a faccia con Townes, ragazzo della squadra universitaria nonché quinto al Campionato di Las Vegas (U.S. Open), che Beth batte ma per il quale ha da subito un colpo di fulmine che durerà negli anni. Anche Henry Baltik (alias Dursley Dudley nella saga di Harry Potter), attualmente campione dello stato del Kentucky viene sconfitto da Beth, la quale diventa campionessa.
Beth con i 100 dollari vinti ritorna da Snyder per acquistare la scacchiera che aveva visto precedentemente e i tre abiti sui manichini vicini alla cassa, che indosserà nelle puntate seguenti. Alma si rende conto della bravura della ragazza. Dopo che il marito di è trasferito a tempo indeterminato per lavoro, la madre adottiva inizia a “prendersi cura” di Beth, approfittando principalmente di avere così la possibilità di viaggiare e di stare nei grandi hotel, mentre al tempo stesso fa compagnia alla giovane figlia, quasi sempre impegnata in tornei di scacchi e nello studio dei libri della disciplina.
Le vincite danno a Beth pian piano sempre più sicurezza in sé stessa, anche se il suo umore avrà sempre degli alti e dei bassi. La disponibilità di denaro proveniente dal gioco, le consente di rinnovare il suo guardaroba, rendendolo più femminile e meno anonimo. Dal 1963 Beth abbandona i pinafore dress dritti, per indossare invece gonne a ruota, abiti più avvolgenti, camicie-bluse con piccoli fiocchi o con colli a barchetta, adottando un abbigliamento adatto per la sua età, senza apparire in questa fase eccessiva o vittima della moda.
The Queen’s Gambit, Episodio 3 – Pedoni doppiati
La puntata tre – Pedoni doppiati – si apre con Beth e Alma che arrivano all’hotel di Cincinnati, una città a nord di Lexington.
La giocatrice per l’occasione indossa l’abito check tinto in filo, con base verde e motivi geometrici bianchi, blu e ocra, con bustino incrociato, stretto in vita da una cintura fine, con gonna ampia, probabilmente a 3/4 di ruota, molto simile ai modelli proposti dagli anni Cinquanta dalla designer Anne Fogarty e la camicia con il collo aperto largo, simile a quello delle divise da marinaio, con maniche lunghe portate con polsini risvoltati. Nei giorni seguenti del torneo Beth indossa lo stesso abito abbinato ad una camicia nera a righine in cotone, con due lembi sul listino che compongono un fiocco e maniche corte a sbuffo. In questa occasione avrà l’occasione di incontrare Benny Watts, il popolare scacchista campione degli Stati Uniti.
Beth vince anche a Cincinnati, ottenendo il primo premio. Non sarà l’unica vittoria; madre e figlia si sposteranno di continuo da un torneo all’altro. Elizabeth ottiene sempre più popolarità, tanto che il magazine Chess Review le dedica un articolo a riguardo.
Numerosissime sono le scene ambientate in aereo. Sul viaggio verso Houston per raggiungere un torneo, durante le vacanze natalizie, davanti al vassoio del servizio a bordo Beth esclama come quello sia il più bel Natale della sua vita. La ragazza nelle scene in aereo indossa quasi sempre maglioncini comodi, con maniche lunghe o corte. La madre nonostante sia il 1963 indossa un look ancora anni Cinquanta. Lo chemisier è il capo principale di ogni suo outfit; era considerato l’uniforme per eccellenza delle donne in quanto permetteva di essere sempre rispettabili e chic. A completare l’abbigliamento guanti corti bianchi, tre fili di perle raccolti all’estremità con un fermaglio e ad ornare il viso con capelli corti, un piccolo cappellino rosa, destinato poi a scomparire nel momento in cui le pettinature diventarono pretenziose, voluminose, vaporose, simili a zucchero filato tenute in piedi da lacca extra forte. I colori delle tinte labbra cambiavano due volte l’anno seguendo le mode del momento; per Alma come per tutte le donne il rossetto era fondamentale.
Arrivate a Houston si fanno coccolare in una spa. Questa scena completamente rosa con pubblicità appese dei profumi Yardley, ai camici con fiocchi delle estetiste mi ha subito ricordato non solo Marvellous Mrs. Maisel, ma anche la carriera di Frenchie di Grease o Sophia Loren con il turbante rosa nel film Arabesque.
Nella scena in cui Beth viene intervistata in camera sua dalla giornalista del magazine Life, indossa una gonna a pieghe, un maglioncino nero a manica corta, dal quale si intravede un colletto bianco a punta. Quest’ultimo abbinato ad un abito nero era presente nell’abbigliamento delle giovani ragazze; in alcuni casi poteva avere oltre al colletto anche i polsini a contrasto. L’abbigliamento costituito da abito corto in jersey, con linea dritta sembrava provenire direttamente dalle boutique londinesi, come Bazaar di Mary Quant.
Beth è diventata ormai popolare, anche a scuola; tutti la fermano per avere un suo autografo. Addirittura la giovane scacchista viene invitata dalle mele verdi ad una festa d’iniziazione.
Per l’occasione Elizabeth indossa un abito (acquistato da Snyder) nero a maniche corte, con scollatura quadrata reso importante da un fiocco stilizzato. Un look simile composto da due pezzi fu realizzato dalla maison Christian Dior nel 1953. Il corpino cadeva sulle spalle, lasciandole scoperte e un fiocco sottolineava la scollatura. La vita stretta era enfatizzata dal corsetto con stecche interne e una cintura in vita. Un altro abito simile con gonna a pieghe, scollatura squadrata e fiocco fu indossato da Audrey Hepburn nel film Arianna. Il capo indossato da Beth ha però una gonna meno ampia. A
casa delle “Mele verdi”, Elizabeth non si sente a suo agio e quando le ragazze in jeans con maglioncini iniziano a cantare ballando sulle note di You’re the one dei The Vogues scappa via, portando con sé una bottiglia di amaro del padre di una delle ragazze. Tornata a casa Beth estrae dalla sua borsa le pillole verdi e le prende accompagnate dall’alcolico appena rubato; ad aspettarla una lunga notte in compagnia della scacchiera, dove finalmente può rifugiarsi e sentirsi al sicuro. La borsa di perline mi ha ricordato immediatamente quelle del marchio inglese Shrimps.
Nel 1966 Beth (ora diciottenne) partecipa al campionato U.S. Open a Las Vegas, che si tiene presso il Mariposa Hotel.
Ora Elizabeth è cresciuta e giorno dopo giorno si sta creando un suo stile personale.
L’abito in vichy misto lana che indossa nella scena dell’entrata in hotel è caratterizzato da una gonna ampia a pieghe cucite dalla vita fino al sedere con orlo evidenziato da un tessuto nero in contrasto. La scollatura a V abbastanza profonda è doppiata esternamente dallo stesso tessuto; inoltre è evidenziata anche questa dallo stesso tessuto a contrasto usato per il fondo dell’abito. A rendere più elegante il look, un coprispalle nero con maniche a pipistrello (estensioni del corpino), con piccoli revers sottolineati da un nastro di raso con un’allacciatura monopetto con tre grandi bottoni ricoperti. Ad accompagnare l’abito, capelli sotto le orecchie ondulati che inquadrano il viso con un ciuffo dolce morbido sul lato destro. Sulle scale Beth nota una ragazza vestita di bianco con pantaloni scampanati e dolcevita rigido a maniche lunghe. Tutto il completo è sottolineato da righe orizzontali grandi dorate. Sembra provenire direttamente dallo spazio.
Elizabeth incontra al Mariposa Townes, il quale rimane abbagliato dal cambiamento di Beth, alla quale dedica un pezzo sul giornale di Lexington.
Durante i tornei la giovane indossa gonne a ruota, blouse e t-shirt di jersey con colletto di maglia a barchetta davanti e a V sul retro, che riprende gli abiti sportivi delle squadre dei club o dei college.
La giocatrice ha inoltre finalmente l’occasione di parlare con Benny Watts, che però le farà subito notare i suoi errori commessi nelle partite precedenti, in particolare con Beltik. Sarà lo stesso ragazzo a fine puntata, a batterla dopo una lunga partita, ottenendo nuovamente il titolo di campione degli Stati Uniti. Beth torna a casa disperata, non sapendo che sarà proprio Benny conosciuto per la sua sfacciataggine ad aiutarla per la vittoria finale contro il russo Vasily Borgov.
Spero che quest’analisi, prettamente personale vi sia piaciuta! Termino qui le prime tre puntate della serie.
Il post delle altre puntate (seconda parte).
Voi avete visto la serie La Regina degli Scacchi? Cosa ne pensate?
Valentina