Visita al Museo del Tessile di Busto Arsizio con Apritimoda 2020!
Il 24 e 25 ottobre 2020 tutta Italia è stata teatro di Apritimoda, un’iniziativa, che per solo un weekend all’anno, consente di scoprire i luoghi più nascosti e segreti della moda. Nato nel 2017, da un’idea di Cinzia Sasso, l’evento (con partecipazione gratuita) ha riguardato inizialmente la città di Milano, per spostarsi anche a Firenze nel 2018, ritornare nella città meneghina nel 2019, fino ad estendersi quest’anno, su tutto il territorio nazionale. Showroom, uffici stile, lanifici, ricamifici, musei, dal Friuli Venezia Giulia alla Sicilia, hanno aperto le loro porte per accogliere curiosi e addetti del settore.
Ho avuto l’occasione di partecipare all’edizione del 2017 e del 2019 a Milano, visitando aziende, laboratori e atelier, destreggiandomi da una visita all’altra per partecipare a più eventi possibili, rimanendo ogni volta affascinata e stupita dalla diversità, dai racconti, dalle testimonianze e dalla passione che ogni realtà, dalla più grande alla più piccola, ha saputo trasmettere.
L’edizione del 2020 ha dovuto fare i conti con la pandemia mondiale, pronta ad abbattersi e ad insidiarsi (ancora una volta) sulle e nelle nostre città, tanto che alcune aziende hanno deciso poche ore prima di non aprire le loro porte e quindi, purtroppo, di non permettere al pubblico di far conoscere il loro lavoro e la loro realtà. Proprio per questo motivo, per quest’edizione ho preferito visitare meno posti e con più calma.
Il primo luogo che ho visitato sabato 24 ottobre è stato il Museo del Tessile e della Tradizione Industriale di Busto Arsizio, città a me molto cara.
Conoscevo il Museo del Tessile, istituzione di rappresentanza per la città e per il territorio, ma non ho mai avuto l’occasione di visitarlo e di approfondire come mai si trova un museo della tradizione tessile e industriale in questa zona. Per me Apritimoda in quest’occasione è stata un modo di conoscere più da vicino questo spaccato del Varesotto.
Si poteva definire la zona di Busto Arsizio, un distretto tessile nato dopo la Rivoluzione Industriale e sfociato in un agglomerato di aziende che negli anni hanno portato avanti una lunghissima tradizione, costituita da personalità pionieristiche, idee innovative e all’avanguardia, al pari della zona del biellese e del comasco. Di questo distretto, che purtroppo negli anni si è dissaldato, rimangono ormai poche aziende che nonostante tutto portano avanti una grande tradizione, come Erica, Tessilidea e molte altre. La fioritura delle grandi aziende nella città di Busto Arsizio, come anche per la città di Como e di Biella, avvenne principalmente per le condizioni di vita che queste zone potevano offrire. Busto Arsizio, in questo caso, risentiva della vicinanza della grande città di Milano, della vicinanza al Ticino e all’Olona e dopo la guerra al grande aeroporto di Malpensa, aperto nel 1948. Tutti elementi non solo favorevoli per l’insediamento umano, ma anche per quello industriale, soprattutto tessile.
Nell’Ottocento la città di Milano accoglieva personalità di spicco dell’alta borghesia, grazie alla presenza dei numerosi ambienti intellettuali adatti per lo scambio di idee e di iniziative; al tempo stesso la città del milanese era il primo grande centro urbano che si incontrava in Italia al di sotto delle Alpi. La posizione strategica permetteva di favorire l’influenza delle città del Nord Europa, come l’Inghilterra e quindi di avere un contatto diretto con tutte le innovazioni tecniche e meccaniche (soprattutto in campo tessile) provenienti dai paesi anglosassoni e dalla grande Rivoluzione Industriale. Le città inglesi ebbero una crescita industriale enorme e non fu da meno quella demografica. Lo stesso procedimento avvenne nei territori italiani; la città di Busto Arsizio nel 1864 (proclamata dal Regno d’Italia una vera e propria Città) contava circa 10.000 abitanti che arrivavano ad essere 15.000 inglobando i paesi di Borsano e Sacconago.
Ma occorre fare un passo indietro per capire come la città di Busto Arsizio sia diventata nei secoli un importante distretto tessile. Il precoce sviluppo dell’artigianato e in seguito dell’industria, nella zona del varesotto e dell’Alto Milanese, aveva come causa principale la scarsa resa agricola del suolo, poco adatto per l’agricoltura data la natura brulla del terreno. Le famiglie si dedicarono ad altre attività per far fronte al deficit agricolo, tra le quali la tessitura di fustagni e bombasine (tessuti composti solitamente da un’ordito di lino e una trama in cotone). Le attività familiari soprattutto delle giovani ragazze consistevano nel sedere ai filatoi, pulire il cotone mentre gli uomini si dedicavano alla tessitura e alla tintura dei colori. Durante il 1300 si ebbe un consistente progresso dell’artigianato e del commercio. Nel borgo di Busto Arsizio in particolare, la lavorazione del fustagno nel Medioevo prese sempre più piede, tanto da essere citata in un trattato conservato presso il Museo del Duomo di Milano che cita:
“… i non pochi lavoranti del fustagno abitanti nel contado di Milano, soprattutto nella plaga di Busto Arsizio.” (Museo del Tessile, Busto Arsizio)
La tradizione tessile rimase ben salda e radicata nonostante le epidemie, le carestie e le guerre con le continue alternanze della dominazione francese e spagnola nel corso del Cinquecento e del Seicento. La laboriosità e lo spirito di sacrificio dei bustocchi, permisero loro, attraverso i secoli di raggiungere alti livelli di produttività già nella lavorazione domestica del tessuto.
“…quasi in ogni casa batte un telaio. Non vi è nessuno degli abitanti del borgo, che essendo di costituzione sana e robusta, non si procacci il pane con l’esercizio di un’arte; […] Ma anche che le donne e le fanciulle dipanano le canocchie cariche di lino o siedono ai filatoi traendo il cotone in fili; moltissime ordiscono la tela, altre puliscono il cotone e lo battono coi bastioni e uomini e donne a gara grattano e pettinano la bambagia che poi altri tessono e altri ancora tingono coi colori”. (Museo del Tessile, Busto Arsizio)
Nel corso del 1700 si andò creando una struttura egualitaria tipica dello stato moderno; da questa nuova organizzazione a trarne vantaggio fu il contado, che conquistò sempre più pienamente un’autonomia organizzativa. Iniziò dunque ad affermarsi una classe di borghesi, o meglio “imprenditori”, titolari di piccole imprese produttive che distribuivano anche il lavoro della tessitura a domicilio occupandosi di reperire la materia prima e di smerciare il prodotto una volta finito presso la loro bottega, sia a Busto Arsizio che nei paesi limitrofi. Nel 1830 a Busto e dintorni si contavano circa quaranta fabbricatori di tessuti; sorsero talmente tante fabbriche, tanto che la città venne nominata la “Manchester d’Italia”. Negli stessi anni si ebbe anche un cambiamento nel sistema di produzione, il quale doveva essere sempre più efficiente, con l’introduzione di macchinari più aggiornati, che andavano a sostituire i telai a mano. Essi corrispondevano a telai meccanici a due, poi a quattro, poi a sei e a otto telai per persona. Accanto alla tessitura sorsero anche settori dedicati alla tintura e alla stamperia, con la conseguente introduzione di altre componenti, come telai, jacquard, macchine per appretti, garzatrici, calandre, ma anche macchine per il candeggio e più avanti per stampare e tingere tessuti. Ma è dalla fine dell’Ottocento, grazie all’ attività dell’imprenditore Enrico dell’Acqua che la città iniziò a specializzarsi nel settore cotoniero e meccanico, grazie ai contatti al di fuori delle nazione dovuti alle migrazioni italiane. L’imprenditore fu una personalità chiave per lo sviluppo dell’industria tessile: la sua formazione avvenne nell’industria cotoniera familiare, ma ben presto i confini delle sue conoscenze toccarono alla fine dell’Ottocento l’Argentina e il Brasile, dove fondò alcuni stabilimenti produttivi e punti commerciali. Il suo interesse per la tintoria e la tessitura lo portarono a sperimentare nuovi tipi di materiali tessili e coloranti, presentandoli nel 1898 all’Esposizione Generale di Torino. Le innovazioni dell’industria Dell’Acqua non furono le uniche, negli stessi anni nacquero il Cotonificio Ercole Bossi, il Cotonificio Giovanni Milani & Nipoti, il Cotonificio Bustese (ex Cotonificio Carlo Ottolini), il Calzaturificio Giuseppe Borri, la Tessitura Airoldi & Pozzi, la tessitura Lissoni & Castiglioni e il Cotonificio Enrico Candiani. Successivamente con la costruzione di infrastrutture a supporto (come la linea ferroviaria) la crescita tessile crebbe costantemente, espandendosi anche nei territori circostanti. Nacquero così nella zona grandi fabbriche in grado di ospitare macchinari all’avanguardia e potente forza operaia.
Tra questi, ci previene la testimonianza di una parte della struttura del Cotonificio Bustese, in particolar modo il reparto che una volta era destinato alla filatura, oggi sede del Museo del Tessile, importante esempio di archeologia industriale della città. La nascita del Cotonificio Carlo Ottolini è da collocare nella seconda metà dell’Ottocento. Destinato inizialmente ad un’attività commerciale, con l’incremento dell’esportazione cotoniera in America Latina, l’azienda ebbe un vigoroso impulso produttivo. Dal 1904 il cotonificio cambiò nome, adottando Cotonificio Bustese con sede a Milano, crescendo ogni anno sempre di più, raggiungendo la potenza di una holding finanziaria, inglobando al suo interno altre aziende. Negli anni Trenta del Novecento si potevano contare circa 3000 telai, 3500 operai, 90000 fusi, fino ad arrivare dopo il secondo grande conflitto mondiale a circa 5700 telai e più di 5000 operai addetti ad operazioni di candeggio, tintoria, stamperia e alle materie plastiche. Con la crisi degli anni Settanta e lo spostamento della manifattura nei paesi orientali, il grande fervore si interruppe, decretando il tramonto dell’industria tessile italiana e con essa anche quella del territorio di Busto Arsizio.
Il Museo del Tessile di Busto Arsizio
Il prospetto del museo e di questo plesso di fabbrica era ed è facilmente riconoscibile grazie ai mattoni a vista, alle due torrette simmetriche, simili a delle torri di avvistamento e di difesa dei castelli medievali. Con le finestre tripartite, le merlature, gli archi a sesto acuto il cotonificio sembrava provenire direttamente dal Medioevo; anche se in realtà non era che una rivisitazione dell’architettura del 1300, molto in voga alla fine del XIX per merito dello studioso e architetto Viollet-le-Duc, il quale considerava l’ architettura medievale, con i suoi materiali poveri e con la sua intelligenza compositiva un esempio significativo di creatività nazionale. La struttura dell’edificio, voluta personalmente dalla famiglia Ottolini dopo un attento studio con l’architetto di famiglia rimanda anche alla Red House a Upton, progettata da Philip Webb nel 1859 per William Morris, tipico esempio del movimento Arts and Crafts. L’edificio di derivazione sicuramente inglese, permetteva di essere riconoscibile e di distinguersi facilmente nell’urbanizzazione della città.
Entrando nel museo, istituito il 30 gennaio 1997, si viene catapultati in uno spazio molto più grande di quello che ci si aspetta da fuori; ben distribuito ed assolutamente efficiente per la visita, sorretto su due piani con accesso alle torrette laterali. Al suo interno il museo è diviso in ampie sale ed in ciascuna di esse sono raccolti strumenti e testimonianze delle diverse fasi di lavorazione delle fibre tessili. Al piano terra sono conservati macchinari di diverse epoche per la filatura, per la tessitura e per il finissaggio; il primo piano è dedicato alla tecnica di tessitura jacquard mentre il secondo è dedicato alla stampa su tessuto, alla tintura, agli archivi e ad una sezione interessantissima riguardante la macchine per cucire e la schirpa, la dote tipica della sposa dell’Alto Milanese, chiaro esempio della manifattura a cavallo tra Ottocento e Novecento, nel territorio di Busto Arsizio. L’ultima grande sala al secondo piano è dedicata alle fibre del Novecento e all’esposizione dei bizzarri strumenti di Antonio Ferramini, sarto e collezionista che ha lasciato al museo parte delle sue ricerche di strumenti per il tessile, scovati a sua volta in negozi, mercati d’antiquariato e archivi di tutto il mondo. Le torrette invece riguardano le testimonianze del Calzaturificio Borri e le fotografie dell’archivio Menotti-Paracchi.
La moda nella tradizione artigianale e il ricamo manuale
La prima tappa proposta dall’itinerario museale di Apriti Moda, che testimonia la capacità artigianale del territorio bustocco tra XIX e XX secolo, è stata la sala al secondo piano dedicata alla moda nella tradizione artigianale e il ricamo manuale, con un approfondimento dettagliato sul corredo nuziale e sulla schirpa. La schirpa (nome di derivazione longobarda) non era altro che la dote della ragazza dell’Alto Milanese che veniva composta dalla famiglia già dai primi anni di vita della fanciulla, futura sposa. Comprendeva biancheria intima, calze, mutandoni, sottovesti, cuffiette, asciugamani, lenzuola, tovaglie, scialli, centrotavola, i quali venivano realizzati, confezionati e ricamati dalle ragazze della casa. Essi erano realizzati prevalentemente con fibre naturali, come lino, cotone e seta. Nel corredo delle ragazze più benestanti non era inusuale trovare abiti eleganti, di tessuti preziosi, per occasioni speciali, confezionati da fidate sarte di famiglia con particolare attenzione e cura. In alcuni di questi capi esposti era facile rintracciare riferimenti totalmente contemporanei, tanto che alcune camicie potrebbero tranquillamente far parte della moda odierna. Mi ha emozionato vedere gli abiti da sposa, così curati e ben fatti, ma anche le cuffiette, che solitamente erano destinate ai neonati, sono deliziose. Per non parlare delle calze traforate, così attuali, tanto da essere in collezioni di grandi marchi, da Gucci a Chanel. Interessante anche il dipinto di Anna Ottolini in abito nero, probabilmente di lana, con maniche a prosciutto, come la moda di fine Ottocento voleva.
L’esposizione delle macchine per cucire al museo
Oltre la vetrata contenente la schirpa sono esposte delle macchine per cucire, le quali divennero uno strumento fondamentale dalla metà del 1700, portatrici di un’industria sempre più in espansione e rivolta continuamente ad una maggiore meccanizzazione. E’ possibile trovare esempi di macchine per cucire di ogni anno, tra cui il modello 1100/2 Borletti a pedale progettato dal designer Marco Zanuso nel 1956, adatta alle donne di casa che tramite i cartamodelli casalinghi proposti dalle riviste volevano realizzarsi autonomamente i propri capi e meccanizzando di conseguenza il ricamo a mano. L’impiego della macchina per cucire, prodotta in Italia dal 1877, all’interno dell’industria tessile favorì la realizzazione di indumenti.
Il ricamo industriale
Dopo aver approfondito il ricamo domestico e l’entrata della macchina per cucire nelle aziende e nelle case, il ricamo e la produzione iniziò ad essere concepita come industriale. Nella vetrata della zona dedicata al ricamo industriale è possibile trovare una campionatura di pizzi sangallo del ricamificio Dama di Gallarate, guanti in ecrù ricamati ed un corto abito del 1960. Nella vetrina è presente anche un abito in tulle impreziosito da piccoli pois ricamati sul tessuto e un corpetto in pizzo guipure, adatto per occasioni speciali; accanto un abito morbido in lurex turchese. Diffuso inizialmente in Inghilterra, il ricamo industriale in Italia nacque dal connubio dei telai a macchina con la capacità e la conoscenza delle donne del ricamo a mano. Inizialmente utilizzate per la biancheria, le macchine da ricamo vennero poi usate sui tessuti per creare svariate combinazioni ed elementi di decoro. Grazie alla sperimentazione con i macchinari, si crearono nuove combinazioni che diedero vita al pizzo macramè, al pizzo sangallo realizzato su tela di cotone o lino. In Italia le prime macchine d’importazione svizzera toccarono il suolo del gallaratese nel 1872 grazie a Francesco Ryzer il quale fondò un’azienda tessile con utensili provenienti dalla Svizzera, suo paese d’origine. Successivamente anche il Italia vennero prodotte macchine adibite al ricamo, da parte dell’azienda Comerio fondata nel 1885 ed attualmente attiva con la quinta generazione familiare. In questa sezione non solo il pizzo è protagonista, anche attrezzi per misurare la resistenza del filo, fotografie d’archivio e strumenti in uso negli uffici, come le macchine da scrivere.
Le campionature tessili
Sempre in questa grande sala, accanto alla vetrata dedicata al ricamo industriale, è possibile trovare un armadio con cartelle di grande impatto, in cartone e in legno numerate. In esso, sono contenuti vari campionari (cioè faldoni numerati a forma di libro contenenti piccoli scampoli di tessuti) forniti dall’azienda Giovanni Milani e nipoti, fondata nel 1870. In queste raccolte erano conservati campionature tessili per documentare la varietà della produzione negli anni e poterli mostrare ai potenziali clienti di aziende dedite alla progettazione di abbigliamento. Ma non erano solo questi grandi raccoglitori ad essere fonte di ricerca e di ispirazione. Le aziende di progettazione potevano essere raggiunte da rappresentanti che mostravano le ultime novità tessili, illustrando e spiegando i diversi prodotti, realizzati dalle aziende per le quali lavoravano. Questi venditori viaggiavano in tutta Italia a mostrare le ultime produzioni, con valigioni carichi di tessuti o addirittura indossavano alcuni capi realizzati con i tessuti che loro stessi pubblicizzavano, per mostrare la resa al potenziale cliente, ma soprattutto per avere meno campionature da trasportare. Ai venditori provenienti da questa zona del varesotto, venne dato loro il nome di “Il Busto Arsizio”, per riuscire ad identificarli maggiormente e per associare la persona al prodotto tessile delle aziende di Busto Arsizio che loro proponevano. I campionari servivano per avere uno storico della produzione, ma anche per fornire ai possibili clienti la possibilità di sperimentare con composizioni e colori di filati diversi. Erano altrettanto importanti per le innumerevoli soluzioni creative relative ai tessuti stampati e alle nuove stampe che potevano essere realizzate sulla base di soluzioni di anni passati.
I processi di stampa e di tintura
Nella sala adiacente alla schirpa si può trovare un grande spazio dedicato ai processi di stampa e di tintura. Attraverso il processo della tintura, il filato o il tessuto assumono un colore omogeneo in tutto il loro spessore. Secondo allo stato in cui si trova la fibra bisogna operare tramite diverse tecniche. Si ricorre alla tintura dei singoli filati quando il tessuto finale è composto da vari colori (tessuti tinti in filo), mentre si parla di tintura del tessuto quando questo deve essere destinato ad avere un’unica tinta o una base uniforme per la stampa (tinto in pezza). Inizialmente le tecniche di tintura erano appannaggio degli uomini, che in grande tinozze o vasche, una volta dopo aver creato il colore (con coloranti naturali o chimici) introducevano il filato o l’intera pezza greggia e li muovevano con grandi bastoni di corniolo, un legno resistente. Una volta tinto il filato veniva lasciato asciugare al sole, tramite gli stessi bastoni posti orizzontalmente. Nelle vetrine è possibile osservare vari vasetti con i pigmenti che venivano utilizzati dai tintori per creare il colore; in base a quanto tempo si teneva il filato o la pezza all’interno del catino tintorio il tessuto assumeva un colore diverso. Fino agli inizi del 1900 i coloranti provenivano direttamente da elementi vegetali o animali; come ad esempio la robbia, il guado, erba cipollina e molti altri. La ricerca chimica tintoria portò ad ottenere risultati accettabili grazie all’utilizzo di mordenti, cioè fissatori di coloranti che permisero di ottenere colori sempre più penetranti e solidi. La prima sperimentazione dei colori reattivi (molto brillanti e resistenti al processo di degrado dato dal tempo e dalle condizioni atmosferiche e ambientali) avvenne in Italia proprio nel Cotonificio Bustese agli inizi degli anni ’60. Oggi la tintura si è evoluta, adottando il metodo Jigger e a macchina continua, con un occhio di riguardo sempre maggiore alla sostenibilità.
Per quanto riguarda la stampa, il tessuto viene decorato con disegni più o meno elaborati e con più o meno colori. In origine venivano utilizzati blocchi di legno intagliati a rilievo (hand block prints) per la stampa a mano. Questi blocks venivano intagliati in legno di noce o cedro seguendo le mode del momento e una volta carichi di colore, venivano appoggiati sul tessuto (che era fissato ai lati) e con delicatezza spostati lateralmente della grandezza del blocco in modo tale da creare un grande pattern uniforme. Se la stampa possedeva più colori, bisognava intagliare più blocchi e fare più passaggi sul tessuto. La collezione più pregiata di questi blocchi (circa 56000 pezzi) appartiene all’archivio Zucchi, nel quale sono contenuti blocchi dal 1785 al 1935, provenienti da ogni parte del mondo. In modo specifico i blocchi provengono dall’ Inghilterra, dall’Austria e dalla Francia, nazioni che possedevano il monopolio del gusto e della produzione dei tessuti. Attualmente la stampa a blocchi viene ancora realizzata a Jaipur, in India, interamente a mano (qui allego un video che spiega benissimo il processo). Successivamente questa tecnica fu soppiantata da una stampa più veloce, introdotta nel 1780 in Francia, chiamata stampa a rulli, che poteva produrre fino a 12 colori. Anche questa tecnica venne sostituita dalla stampa rotativa con cilindri a fotoincisione, in cui è impresso il disegno. Attualmente la stampa più utilizzata è quella inkjet.
Le fibre tessili del XX secolo
Successivamente, tornando indietro e superando la sala dei campionari, si accede alla stanza dedicata alle fibre tessili nate da studi e ricerche ad opera dell’uomo. Sarebbe interessante introdurre in questa sezione le nuove fibre di ultima generazione, come Orangefiber, proveniente dagli scarti di agrumi, oppure il Pinatex, tessuto ricavato dalle fibre delle foglie dell’ananas e molti altri.
La Collezione Antonio Ferramini al Museo del Tessile
La parte più divertente è secondo me la Collezione di Antonio Ferramini, donata al museo. Antonio Ferramini è stato un giovane ragazzo con la passione per la sartoria, che dalla provincia di Teramo si sposta per cercare la sua strada e fortuna altrove. Dopo anni di formazione decide di aprire il suo negozio a Milano, in via Santa Agnese nel 1960. Il suo lavoro di alta sartoria viene così apprezzato da star e aristocratici, come i Borromeo e i grandi industriali Borletti. Nel 1975 Antonio, insieme al fratello Pietro, brevettano il Metodo Zeta, adatto per capispalla maschili e femminili, ottenendo un successo in America e in Giappone. Da quel momento in poi l’attività da Via Santa Agnese, si trasferisce in Via Terraggio 13, vicino all’affascinante Chiesa di San Maurizio a Milano. Durante tutti questi anni il sarto Ferramini ha raccolto in mercati, fiere e negozi d’antiquariato strumenti sartoriali storici, come ferri da stiro, ditali, forbici, portaspilli e macchine per cucire. Nel 2016 il sarto ha deciso di donare parte della sua collezione ad alcuni musei, tra cui lo stesso Museo del Tessile di Busto Arsizio e il Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano. Le forbici esposte, di diverse epoche e di diverse fatture, provengono principalmente da Inghilterra e Germania. I ditali scelti invece sono estremamente curiosi e alcuni di questi sono dipinti con fiori ed animali, tanto da sembrare delle piccole ceramiche. I ferri da stiro esposti invece riescono a tracciare una vera e propria storia di questo strumento. Composti inizialmente da una lastra con manico che veniva fatta riscaldare e che serviva per aprire le cuciture e appiattire i tessuti. Successivamente si crearono ferri da stiro con base apribile nella quale era possibile inserire una piastra rovente che consentiva di ottenere il ferro sempre caldo. Sono addirittura esposti ferri a brace, che con il tempo vennero sostituiti da ferri che si attivavano con l’inserimento di particolare sostanze, come olio o alcool e molte altre. Per ultimi infine i ferri elettrici, di diverse forme con manici ergonomici o semplicemente estetici. Esistono moltissimi dipinti che ritraggono donne di tutte le epoche intente a stirare e ad appiattire i tessuti, come ad esempio la domestica ritratta dal pittore Henry Robert Morland del 1765 esposto alla Tate Gallery a Londra, oppure più semplicemente Le Stiratrici di Edgar Degas, fino ad arrivare alla pubblicità colorate degli anni Cinquanta. Ma non solo ferri da stiro, forbici e ditali i protagonisti, anche illustrazioni, portaspilli, bottoni e piccole macchine per cucire portatili.
I telai e la tessitura jacquard
Scendendo al primo piano ci si addentra nel percorso espositivo dedicato allo jacquard. Fino all’inizio dell’ Ottocento i tessuti disegnati erano realizzati con telai guidati da più persone, una delle quali si ergeva in cima per azionare i fili dell’ordito, mentre in basso il tessitore era seduto per il lancio della trama ed il movimento della cassa battente. Il lionese Joseph Marie Charles, detto Jacquard, nel 1805 inventò una macchina che dava la possibilità di realizzare tessuti molto preziosi con disegni complessi, azionata facilmente da una persona tramite un pedale, grazie alla quale era possibile sollevare in una volta sola un numero relativamente alto di fili, per tessere stoffe con disegni composti dai 100 e 1000 fili e più di rapporto. Con il mondo moderno il telaio jacquard si andò sempre più perfezionando, con l’introduzione di schede perforate (una sorta di codice in cui ad ogni tassellino perforato corrisponde un disegno e un’operazione da parte della macchina). Questo sistema meccanizzato può essere visto come un’anticipazione del codice informatico, nato negli anni Sessanta e Settanta del 1900. Nella sala sono esposti i macchinari utili per le diverse fasi di produzione del tessuto jacquard, dalla realizzazione delle schede e dei disegni, alla legatura dei cartoni perforati alla tessitura. (Qui e qui i link a due interessantissimi video sulla tecnica jacquard).
Spedizione ed etichettatura
Una volta che il tessuto era pronto, dopo un’operazione di finissaggio e di controllo qualità, esso veniva misurato, inventariato, etichettato e reso disponibile per la spedizione al cliente. Proseguendo nella grande sala del primo piano, si trovano macchine per piegare alla perfezione il tessuto o avvolto il diversi rotoli. Sulle pezze di stoffa in origine veniva stampato un piccolo marchio come simbolo dell’azienda produttrice. Questi marchi vennero sostituiti successivamente da etichette decorate che portavano il nome del produttore, del suo tessuto, la composizione e la sua destinazione d’uso. L’etichetta non aveva solo un significato commerciale, ma veniva utilizzata anche per rappresentare l’azienda e il paese di destinazione delle pezze; per il mercato statunitense veniva utilizzata l’etichetta con la Statua della Libertà, mentre per il mondo arabo i souk, i tipici mercati. Se le pezze venivano ritirate direttamente dal cliente, esse venivano solamente incartate, mentre se dovevano essere soggette a spedizioni venivano avvolte in iuta, chiuse e schiacciate nelle presse. Inizialmente il tessuto veniva esportato tramite muli o animali al di là delle Alpi; dal 1800 in poi l’introduzione della ferrovia e delle navi a vapore diedero la possibilità di raggiungere territori molto lontani, come il Medio Oriente o il Sud America. Nella sala anche campionari che i rappresentanti utilizzavano per pubblicizzare i tessuti prodotti dalle aziende che essi rappresentavano.
Se ai piani superiori le sale sono adibite principalmente agli elementi in qualche modo secondari del processo tessile, il piano terra è dedicato invece ai processi primari, dalla sala della filatura, a quella della tessitura e del finissaggio.
Filatura, tessitura e finissaggio
Il Cotonificio Carlo Ottolini si dedicava principalmente alla fibra del cotone; esso era già presente prima del secondo millennio a.C. in India e in Perù. Fu introdotto dai Saraceni prima in Sicilia e successivamente in tutta Europa intorno al XIV secolo. La pianta richiede clima caldo umidi per crescere e l’America offrì ai conquistatori spagnoli enormi distese di piantagioni di cotone. Furono però gli Inglesi e i Francesi a sviluppare la produzione tessile di questa fibra. Una volta che la fibra maturava e che diventava un grosso fiocco veniva raccolta a mano inizialmente e poi meccanizzata, il cotone giungeva nelle città tessili, come Busto Arsizio, non ancora trattato. Grazie alle operazioni di filatura il cotone in fiocco veniva trasformato in filato tramite diversi passaggi; prima di tutto si procedeva con la pulizia del fiocco, dal quale venivano tolte impurità, come semi. Questa operazione avveniva prima manualmente grazie ai cardi che venivano utilizzati come pettinini per rimuovere corpi estranei, poi tramite le cardatrici. I fili di cotone così ottenuti venivano resi più uniformi dal processo della stiratura e dall’accoppiamento, successivamente i filati subivano una torsione per far loro acquisire resistenza ed elasticità adatta per essere tessuti. In seguito venivano usati i fusi e gli aspi per creare la rocchetta di filato, utilizzabile nelle fasi successive. Il filato ottenuto era grossolano ma era adatto per la produzione dei fustagni.
Dopo che il filato era stato ottenuto, si procedeva all’operazione di tessitura. Il telaio è lo strumento che di base si utilizza per qualsiasi tessuto, che si ottiene tramite l’intreccio di trama (orizzontali) e ordito (verticali) dando vita a strutture e disegni differenti, in base a come vengono intrecciate le due componenti principali. Nella sala sono esposti telai domestici manuali del 1800; con la mano veniva lanciata la navetta, mentre con i piedi si manovravano i pedali. Grazie al movimento di questi ultimi tra i fili dell’ordito si creava un passaggio, attraverso il quale veniva lanciata la navetta contenente il filo. La trama veniva poi compattata tramite la cassa battente.
In seguito i telai meccanici soppiantarono quelli manuali. Nel 1733 venne brevettato dall’inglese John Kay la spoletta volante o navetta lanciata che consentiva la tessitura automatica, dimezzando i tempi produttivi. Successivamente il telaio fu totalmente meccanizzato. L’inventore del telaio senza navetta fu invece Guido Giavini; la sua invenzioni fu straordinaria perché consentiva di sparare un proiettile a tamburo che trasportava con sé il filo. Queste introduzioni provocarono un certo scompiglio negli operai i quali pensarono che con le nuove macchine, buon parte di loro avrebbe perso il lavoro. Ma non ci furono risvolti così negativi; anzi la maggiore richiesta di tessuto diede impulso alla nascita di grandi stabilimenti contenenti un numero elevato di telai e di personale addetto.
L’ultima parte della mia visita riguarda il finissaggio, cioè la nobilitazione della superficie del tessuto. Questa operazione è utile per rendere il tessuto più morbido e luminoso, adatto per le successive operazioni di taglio e di confezione. I trattamenti potevano avvenire con macchinari o con sostanze (come gli appretti). Uno dei macchinari più grandi è il beetle, introdotto ed utilizzato per la prima volta in Irlanda per i tessuti di lino. Più avanti, dal 1850 questo grande macchinario veniva utilizzato anche il cotone ottenendo un discreto successo. L’obiettivo del beetle era quello di rendere i tessuti i più morbidi possibili. I grandi martelli cadevano sul tessuto conferendogli una certa mano. I bastoni avevano talmente tanta forza che trasformavano il tessuto duro di cotone con una resa molto fluente, simile alla seta, arrivando a 450 battiti su stoffa al minuto. Il beetle e la calandra che prevedeva due cilindri talmente vicini tra di loro da schiacciare il tessuto, erano gli strumenti che quasi tutti le aziende tessili del territorio avevano.
La collezione del Calzaturificio Borri
L’ultima sezione che ho visitato è stata la torretta est dell’edificio, in cui è ospitata la collezione del Calzaturificio Borri. Giuseppe Borri, imprenditore, figlio di un calzolaio si formò nell’attività del padre e dopo diverse esperienze di produzione artigianale di calzature, tra cui alcune in Svizzera, decise di fondare il suo laboratorio, nel 1892. Nel 1889 all’Esposizione Universale di Parigi ebbe la possibilità di conoscere l’azienda americana Good Year. Questo incontro gli permise di introdurre in Italia i primi macchinari e il sistema di cucitura Good Year. Nel 1901 a Busto Arsizio il Signor Borri aprì la prima fabbrica meccanica calzaturiera. Nel corso della sua carriera mise a punto una serie di migliorie, occupando le fasce di mercato maschili, femminili e quelle destinate ai più piccoli. Venne creata la linea di scarpe per bambini Pinocchio, poi rinominata Piuma, allestendo per le città grandi manifesti pubblicitari. Dopo la morte del fondatore negli anni Venti, il figlio prese le redini dell’aziende, andando di pari passo con le iniziative del governo autarchico di quegli anni. Nella metà del ‘900 l’azienda continuò a proporre nuove collezioni all’avanguardia che sapevano catturare il cliente grazie ai diversi slogan e agli investimenti nella pubblicità. L’azienda conobbe dopo circa un secolo il suo tramonto e la definitiva chiusura negli anni 90.
La visita al Museo del Tessile è stata per me un’occasione per conoscere meglio il territorio in cui abito e la tradizione tessile che lo ha contraddistinto per secoli. Sono venuta a conoscenza di tecniche, di metodi e di abitudini a me sconosciute, prima di questa visita. Il Museo è ricchissimo di testimonianze, macchinari, oggetti, capi e la collezione Antonio Ferramini arricchisce questo tesoro.
Per tutti questi motivi consiglio vivamente la visita. Il museo è a ingresso libero e gratuito e si trova in via Volta 6/8 a Busto Arsizio (VA).
Spero ci siano tantissime altre iniziative come questa, fonte di ispirazione e di conoscenza.
Voi siete mai stati al Museo del Tessile di Busto Arsizio? Per l’evento ApritiModa quali aziende/laboratori avete visitato?
Valentina
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Thank you
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