In visita al Museo Didattico della Seta alla scoperta del processo produttivo della fibra più preziosa del mondo.
Ho sempre pensato che ci sia qualcosa di magico nei tessuti, soprattutto in quelli naturali.
Da una pianta, da un seme, da un fiocco, da delle foglie, da degli insetti, grazie a delle tecniche paragonabili all’alchimia o alla stregoneria (non a caso nelle fiabe molto spesso si narra di principesse alla presa con arcolai e filatoi incantati o giovani ed umili fanciulle che raccontano storie di magia durante la tessitura), è possibile ottenere un filato che unito insieme ad altri con formule “magiche” e combinazioni crea un tessuto, un telo, che a sua volta con sapienti tecniche e calcoli matematici si trasforma in un abito capace di trasmettere l’identità di chi lo ha scelto e indossato. Un sistema di scoperte, che da generazione in generazione è passato da una mano all’altra, da una mente all’altra, attraversando oceani, terre lontane, superando anche epidemie, carestie, guerre, culture, giungendo sino ai giorni nostri.
In modo particolare, la seta, sembra essere la fibra più magica e misteriosa di tutte, forse perché proveniente dal lontano Oriente, forse perché rimase per secoli e secoli appannaggio delle classi più abbienti, o forse semplicemente perché da un incessante e rumoroso ma estremamente naturale lavoro di un bruco, nasce uno dei più preziosi tessuti al mondo. La magia è semplicemente ciò che la natura seguendo il suo ciclo riesce a proporre all’uomo, il quale deve però riuscire a cogliere gli aspetti nascosti ed utili con un’attenta osservazione del mondo circostante.
Durante l’ evento organizzato nell’edizione di ottobre 2020 di Apriti Moda, ho avuto l’occasione di approfondire questo lungo viaggio, alla scoperta della seta, la fibra più preziosa da secoli e secoli.
La mia esperienza di Apriti Moda, iniziata con il Museo del Tessile di Busto Arsizio (Varese), è proseguita e finita allo stesso tempo con la visita presso il Museo della Seta di Como. Da tempo desideravo visitare questa realtà comasca per conoscere in modo più approfondito la realtà e la storia legata alla seta e l’occasione di Apriti Moda è arrivata proprio al momento giusto. Come ho già accennato precedentemente, nel capitolo del Museo del Tessile, in Italia si crearono dei veri e propri distretti dedicati a delle attività legate a loro volta a delle materie prime, che trovarono il luogo ideale per il loro sviluppo e la loro lavorazione. Il territorio bustocco divenne meta, dato il terreno poco favorevole all’agricoltura, dell’industria tessile del fustagno e del cotone che veniva importato, la zona del biellese fu famosa per la produzione e lavorazione della lana, mentre Como divenne il fulcro principale, dalla metà del XVIII secolo del ciclo completo di lavorazione del tessuto serico sia per la notevole quantità di acqua, sia per la disponibilità elevata di manodopera. Il Museo della Seta istituito nel 1985 grazie alla Classe ’27 con la collaborazione degli ex Allievi del Setificio, ed aperto nel 1990 è un perfetto contenitore nato con lo scopo di illustrare il completo ciclo di lavorazione di questa pregiata fibra tessile. Il Museo che vede il riconoscimento di Regione Lombardia, è inserito in un contesto di ricerca e di innovazione. Esso si trova in una struttura moderna, costruita tra il 1968 e il 1975 dagli architetti Lorenzo Muzio e Franco Tartaglino, nei locali interrati di un’architettura che comprende l’Istituto Tecnico Statale “Paolo Carcano”, il Centro Tessile Serico Spa, per la formazione e aggiornamento tecnologico, la stazione sperimentale per la seta per le ricerche del settore serico e tessile, ma anche le sedi comasche dell’Università dell’ Insubria e del Politecnico di Milano. Dunque un vero e proprio hub di ricerca tessile e serica.
All’interno del Museo si possono trovare invece macchinari, attrezzature tecniche e strumenti in uso tra il 1850 e il 1950, alcuni dei quali ancora perfettamente funzionanti. Tutto l’intero ciclo della lavorazione è testimoniato anche da abiti, accessori, schizzi, campionature, blocchi di stampa e altri innumerevoli oggetti. Le sale espositive del Museo didattico della Seta, le quali si espandono su una superficie circa di 1000 mq. sono occupate da un patrimonio unico mondiale, merito delle numerose donazioni effettuate tra il 1994 e il 1998 da parte di aziende tessili e imprenditori. Il Museo comasco documenta la produzione serica dalla fine del XVIII ai primi decenni del XX secolo, illustrando il ruolo del comparto tessile nello sviluppo dell’economia e della cittadina di Como. Anche se certamente le origini della seta non risalgono al XVIII, nella città comasca, essa divenne un importante centro produttivo, conosciuto in tutta Europa. Nel capoluogo comasco, dall’inizio del 1800 non erano presenti solamente tutte le lavorazioni del tessuto, dalla sua ideazione e creazione, ai trattamenti finali di nobilitazione, ma anche la produzione di macchine tessili e telai in particolare. Si nota come la seta sia in stretto legame alle scoperte tessili che nel corso dei secoli garantirono sempre più una maggiore conoscenza della fibra e i diversi metodi di tessitura e di impiego.
La Cina, terra madre della seta
Il tessuto serico ha origine millenni di anni fa, forse grazie ad un evento bizzarro e fortuito, o forse per merito dell’intuizione dell’uomo, quel che è certa è la sua origine, così lontana, nei remoti territori cinesi, tra il Fiume Giallo e il Fiume Azzurro, presumibilmente 5000 anni fa. La scoperta e la conoscenza di questa fibra, che riuscì ad unire Oriente ed Occidente è avvolta da misteri e leggende. Una di queste, vede l’origine proprio in Cina tra il 2697 e il 2597 a.C., nel palazzo diHuang Di, conosciuto come l’Imperatore Giallo, da parte della moglie Lei Zu, la quale si narra, che durante il rito del tè, si sia seduta con la sua tazza sotto a degli alberi di gelso. Un bozzo color crema cadde dall’alto e finì improvvisamente nella bevanda della giovane fanciulla. I tentativi di sbarazzarsi di questo strano oggetto furono vani, in quanto il calore del tè fece sciogliere il bozzolo, che si trasformò in un lungo filamento continuo attorcigliato su sé stesso. L’imperatrice incuriosita, prese il capo del filo e lo distese per tutto il perimetro del giardino, per oltre seicento metri. Il quotidiano rito del tè si trasformò in una rivelazione. L’imperatrice raccolse altri bozzoli dai gelsi, ammorbidendoli, lavorando i fili e creando un tessuto morbido, fresco al tatto e luminoso. Entusiasta, la giovane continuò ad approfondire la sua ricerca, studiando le diverse fasi. In seguito ai suoi approfondimenti chiese all’imperatore Giallo di poter allevare i bachi da seta. L’imperatrice costruì anche una bobina per avvolgere le fibre e un telaio per tessere. Da qui in poi si diede avvio alla gelsibachicoltura. Numerosissime sono le leggende che rivestono l’aura della seta, quel che è certo era la presenza di innumerevoli distese di gelsi nel territorio cinese, accompagnate dalla falena della seta, il Bombyx Mori, la quale trova tra i rami del gelso il suo habitat naturale, nonché, con le foglie fresche della pianta, la sua principale fonte di alimentazione.
Con la gelsibachicoltura, (cioè con l’allevamento dei bachi da parte dell’uomo), il processo naturale composto dalle quattro fasi principali (uova, bruco, crisalide, farfalla) ha subito delle modifiche. La farfalla che esce dal bozzolo non possiede più la bocca e non è più in grado di volare. In seguito alla continua somministrazione di cibo alla quale è sottoposta dall’uomo, essa ha la capacità di vivere per quattro giorni senza procurarsi alcun alimento, arrivando addirittura a riprodursi senza alcun bisogno di ulteriore alimentazione. Oltre a ciò essa è stata privata anche dalla sua capacità di volare e conseguentemente di andare alla ricerca della sua metà. Negli allevamenti questo passaggio viene completamente saltato, in quanto la farfalla viene posta immediatamente in contatto con gli insetti di sesso maschile, per attuare la riproduzione. La falena riesce a deporre brevemente dalle quattrocento alle cinquecento uova, mandando avanti la specie. Solamente alcune di queste uova si schiuderanno diventando bruchi insaziabili. Se i bachi vengono alimentati in modo corretto e a sufficienza, essi si trasformano brevemente in un bozzolo; alcuni vengono lasciati crescere per continuare il ricambio della specie, mentre altri vengono raccolti per ottenere il filato serico. I bachi, dopo che hanno tessuto attorno a loro il guscio protettivo, vengono staccati dai rami o dalle lettiere e si privano di una peluria esterna (chiamata bava), inutile per le fasi successive, ma adatta per imbottire piumini o capi invernali. I bozzoli scelti vengono poi trattati con vapore, ad alte temperature o seccati con appositi strumenti per uccidere la crisalide. Essi, successivamente vengono immersi in acqua calda per ammorbidire il guscio. A questo punto il bozzo inizia pian piano a sfaldarsi e a mostrare i lunghissimi filamenti di seta, i quali, tolti dall’acqua vengono srotolati, evitando che si annodino. Una volta individuati i capi, i diversi filamenti vengono ritorti insieme per ottenere un filo più spesso e resistente per la successiva fase di tessitura.
Numerose sono le testimonianze di quanto la seta sia stata per il popolo cinese una vera e propria rivelazione. Nel dipinto del XII secolo, Dame di corte che preparano la seta recentemente tessuta, dell’imperatore, nonché artista Hui Zong, le donne, rappresentate su un rotolo di seta tramite inchiostri, pigmenti e frammenti d’oro, sono impegnate nei diversi stadi della lavorazione della pregiata fibra. Alcune pestano la seta, altre sono sedute a cucire, altre ancora distendono un pezzo di tessuto. E’ interessante notare come le figure femminili rappresentate appartengono certamente ad un alto rango, con abiti a vita alta dalle linee sinuose e dalle gamme dei cerulei, dei verdi e degli albicocca e capelli raccolti con preziosi pettinini. Probabilmente possono essere intese come giovani donne a servizio della corte imperiale.
Per più di 5000 anni (se si pensa che alcuni accenni alla seta sono stati riscontrati in tombe delle dinastie cinesi del periodo del Neolitico), il popolo cinese fu l’unico a ricavare dal Bombyx Mori la seta, ottenendo per secoli e secoli il monopolio mondiale. Come per le popolazioni egizie o etrusche, le tombe funerarie di aristocratici rivelarono molto riguardo gli usi, i costumi e l’economia di un popolo. Lo stesso accadde per le diverse dinastie cinesi, le quali lasciarono non solo oggetti preziosi ricoperti di seta, o manoscritti in cui la presenza del tessuto serico era una costante, ma addirittura anche bobine, aghi e altri attrezzi utili per il processo produttivo. La seta divenne dunque paragonabile ad un vero e proprio bene prezioso, utile anche nell’aldilà. Riguardo alla leggenda di Lei Zu, la donna assunse le sembianze di una dea, tanto che vennero dedicati culti alla sua opera benevole; ma non solo, anche sculture ed edifici vennero eretti in suo onore.
Ciò che era ovvio e lo rimase per secoli era la destinazione del tessuto di seta. Solamente i ceti più abbienti potevano permettersi di indossare un tessuto così morbido e fresco.
Essi non solo facevano tingere i teli secondo i colori della dinastia di appartenenza (durante la dinastia Tang erano prediletti colori squillanti, mentre la dinastia Song preferiva tonalità più spente), ma per esibire ulteriormente la loro potenza e ricchezza, chiedevano di ricamare i capi o tessere i teli con motivi ricchi di significati. La seta non era però utilizzata solamente per le vesti, le quali erano bene gestite da leggi, ma anche per occasioni speciali, come feste e riti, nelle quali il tessuto era impiegato per diversi usi, anche decorativi. Per la Cina avere a disposizione una quantità di seta che riuscisse a coprire tutto il fabbisogno divenne un’impresa epica. Non solo si percepiva la necessità di una quantità sempre maggiore, ma si sentiva il bisogno di velocizzare il procedimento di produzione tramite l’attuazione di un progresso tecnologico. Per far fronte al problema della quantità, durante la dinastia Zhou, che governò in Cina tra il XII e il III secolo a.C., si organizzò un dipartimento che si occupava della sericoltura in tutto il regno, dall’approvvigionamento, al controllo minuziosissimo della qualità del prodotto finito. La produzione della seta per secoli riguardava tutta la popolazione cinese, con la possibilità della distinzione produttiva in tre grandi filoni produttivi. La quantità minima era garantita dalla famiglie contadine, nelle quali le donne portavano avanti egregiamente l’intero ciclo produttivo della seta per pagare le tasse imposte al nucleo abitativo. Al gradino successivo, garanti di un rendimento più proficuo, si trovavano gli stabilimenti professionali, i quali erano in possesso di tutti gli strumenti (come ad esempio il telaio a tensione), per produrre stoffe di seta elaborate che seguissero gli ultimi dettami di moda. Per finire, i laboratori gestiti dallo stato e direttamente dal palazzo imperiale, che fornivano con le migliori sete la corte. Si crearono vere proto industrie che annoveravano non solo strumenti all’avanguardia per l’epoca, ma anche personale qualificato che sapesse far di conto e addetti altamente capaci di gestire i processi produttivi al meglio. Sorsero dunque veri e propri stabilimenti ben organizzati, i quali grazie alla lavorazione della seta, fornivano al paese un’importante fonte di reddito.
Quest’ultima non solo fu utilizzata sia per il vestiario o come elemento decorativo, ma per un lungo periodo di tempo sostituì anche la moneta, usata per mezzo del baratto, per l’approvvigionamento di animali o di manodopera, utili a potenziare il monopolio serico. Di mano in mano le pezze di pregiata seta, finirono non solo per comprendere la fascia del mercato interno, ma anche di quello internazionale.
La Via della Seta
La seta arrivava, all’inizio fortuitamente ai popoli occidentali, ignari del bene prezioso presente nei remoti territori cinesi. Con l’apertura della Via della Seta (l’immenso reticolo, che si sviluppava per circa 8000 chilometri, che collegava i commerci tra l’impero cinese e quello romano) e le rotte ad essa annesse, carichi immensi di questo prezioso e magico tessuto arrivarono dopo lunghi viaggi sulle coste del Mediterraneo. L’espressione “via della seta” fu coniata solamente nel 1800 da Ferdinand Von Richthofen. E’ bene capire come questa immensa via non fosse chiara e ben definita, ma composta da un’intersezione continua di percorsi via mare e via terra, espandendosi in tutti i territori dell’Estremo Oriente. In questa crocevia di potevano individuare delle strade principali, come quella “oriente-occidente” che da Chang’An, passava dal Turkestan, arrivando sulle sponde del Mediterraneo, percorrendo una serie di paesi prettamente desertici e aridi: gli attuali Iran, Iraq e Siria. Non sempre i prodotti che partivano da una meta dovevano arrivare per forza all’altro capo della via; spesso questi tesori venivano scambiati in territori dell’entroterra, con nomadi o contadini. Si creò un brulichio continuo di qualsiasi bene immaginabile. Ma non solo prodotti, anche usi e culture diverse, lingue, religioni, e stili artistici percorrevano le immense vie della seta. Affrontare le spedizioni con prodotti costosi e di lusso era una vera e propria impresa; spesso i commercianti venivano saccheggiati, potevano finire in preda a delle guerre o smarrire l’orientamento in seguito a forti eventi atmosferici, come tempeste di sabbia. Le carovane che si organizzavano per i commerci raramente però partivano impreparate. Alcune di queste erano composte da abili conoscitori delle terre battute dai commerci, come ad esempio gli armeni, eccellenti a percorrere lunghe distanze o i russi e i vichinghi, conosciuti per lo scambio di cera, ambra e miele proveniente dai territori orientali. La Via della Seta fu il tramite per l’arrivo del prezioso tessuto anche nel territorio italiano, durante l’Impero Romano, il quale veniva scambiato con il grano dell’Egitto, l’oro dalla Spagna, topazi dal Mar Rosso, ma anche vetro, corallo, vino e lana. L’arrivo della seta procurò un forte interesse nel popolo romano, che si ritrovò tra le mani un telo così impalpabile, fresco e prezioso, proveniente dalla Cina, senza sapere nulla di più sul metodo di realizzazione.I romani appartenenti alle classi più abbienti diventarono totalmente assuefatti dal tessuto, il quale trovò impiego nelle vesti di uomini e donne e nelle decorazioni urbane tramite teli di grandi metrature da usare come tendoni per le vie della città di Roma, tinti con colori forti e penetranti. Le dimore aristocratiche romane, come le ville poste al di fuori della città eterna, presentano all’interno numerosi affreschi con personaggi dalle vesti leggere, quasi trasparenti. Nella ritrovata Pompei, nella Casa del Naviglio sono varie le figure affrescate che indossano teli leggiadri e cangianti.
Per secoli e secoli la bachigelsicoltura non venne però mai esportata al di fuori della Cina; chi veniva scoperto a contrabbandare bachi da seta, poteva essere condannato a morte. C’era però l’usanza di acquistare sete cinesi per poterle studiare, disfare e ritessere. Tenere lontano e nascosto il segreto della sericoltura si rivelò però ben presto controproducente. Diverse popolazioni pretendevano di ottenere la “formula magica” per la creazione di questo prezioso tessuto, reso ancora più desiderabile dal divieto imposto dalle autorità cinesi.
Ai tempi di Giustiniano, la città di Costantinopoli, soprannominata la Città dell’oro e chiamata precedentemente Bisanzio, che sorgeva sulle rive del Bosforo (canale che unisce il Mar Nero al Mar Egeo), dominava i traffici commerciali nel Mar Mediterraneo. L’impero bizantino oltre ad ereditari i territori appartenuti all’Impero Romano, comprese anche parte della cultura romana e con essa il fascino e l’interesse per la seta. I bizantini strinsero così contatti con i paesi dell’Estremo Oriente e con la Cina, territori ricchi di materie prime preziose, tra cui il pregiato filato. Come il popolo romano, anche i bizantini si ricoprirono in modo ancora più spropositato di accessori, vesti e motivi decorativi di seta tessuti con filamenti metallici dorati, per rappresentare la loro ricchezza e il loro predominio, testimoniata dai numerosi mosaici. Anche in questo caso il fabbisogno di tessuto serico era molto elevato; continui erano gli acquisti al di fuori dei confini imperiali da parte degli intraprendenti mercanti bizantini. Fino al VI secolo Bisanzio dovette sottostare ai monopoli commerciali di altre potenze, tra cui la Persia. Essa si era assicurata il controllo delle principali vie di comunicazione con l’Estremo Oriente, ostacolando in questo modo i commerci serici secondari, come quelli di Costantinopoli. I filati proveniente dalla Cina, obbligatoriamente dovevano passare dall’Impero Persiano. I Persiani estesero i propri interessi anche alle vie marittime e fluviali, controllando il Golfo Persico, punto di sosta in cui attraccavano le navi cariche di seta salpate dall’India. Costantinopoli perseguì numerose e disparate vie per tentare d’ovviare alla fastidiosa presenza persiana.
Giustiniano cercò di superare il problema tentando di aprirsi un passaggio per la Cina attraverso la Crimea, e in questa occasione i bizantini avviarono delle relazioni diplomatiche con i Turchi, anch’essi in conflitto commerciale con i persiani. Sotto il successore di Giustiniano, bizantini e turchi si allearono contro il popolo persiano. Un altro modo con cui Giustiniano cercò di commerciare con la Cina senza passare per la Persia fu giungere via mare passando per il Mar Rosso e per l’Oceano Indiano. In quest’occasione strinse rapporti commerciali con gli etiopi. Tuttavia entrambe le vie alternative presentavano inconvenienti: l’Oceano Indiano era dominato dai mercanti persiani mentre la via asiatica era impervia e piena di pericoli.
Giustiniano I, che fu al comando dell’Impero fino al 565 d.C. incoraggiò due monaci, intorno al 552 d.C., forse dell’ordine di San Basilio, che si erano trasferiti in terre straniere a portare le prove delle loro conoscenze apprese in Cina riguardo il processo produttivo serico. Essi trafugarono dei bozzoli durante i loro viaggi in Oriente, che nascosero clandestinamente nei loro bastoni ricavati da canne di bambù. Tramite questo stratagemma essi garantirono all’imperatore la possibilità di non acquistare più tale merce dai nemici persiani.
La produzione della seta non si attuò nell’immediato; gli scambi con la Cina durarono ancora per anni. Dopo di che si stabilì che la seta venisse prodotta nei territori dei Romani. In tutto l’Impero numerose erano le città addette alla lavorazione della seta; da Antiochia, Beirut ad Alessandria d’Egitto. Nelle città si organizzò la produzione in corporazioni ( i tessitori, i tintori e i ricamatori) dediti a vesti e decorazioni per le alte classi aristocratiche. La lavorazione privata nel regno era gestita dai mercanti di seta grezza, dai filatori, dai sarti e tintori, dai mercanti di abiti bizantini e i mercanti di sete importate. La loro attività era controllata da leggi minuziose.
La produzione serica rimase per secoli appannaggio dei territori bizantini garantendo prosperità fino al momento in cui le popolazioni arabe, proveniente dalla penisola arabica, invasero le terre bizantine, determinando lo spostamento della produzione nelle aree dei Balcani e della penisola ellenica. Le popolazioni arabe vennero a conoscenza delle tecniche della produzione serica e le diffusero nei territori della Calabria (Catanzaro) e della Sicilia (Palermo), i quali iniziarono ad essere popolati da piante di gelso, attorno all’anno Mille.
In particolar modo i territori italiani dal XII secolo divennero i maggiori produttori di seta. Ad incentivare questa economia potrebbero anche aver contribuito le numerose comunità monastiche nate sul territorio, che disposero ad un certo punto di numerosi terreni coltivabili impiegati inizialmente per la produzione di grano, vino, olio, ma anche di seta o dal Re Ruggero che ne venne a conoscenza in Grecia. La Calabria mantenne un’intensa attività commerciale interagendo anche con i territori del Nord Africa. Con Ruggero II, furono ospitati tessitori e tintori greci perché lavorassero data la loro maggiore esperienza per le manifatture reali. Il più famoso reperto storico fu il mantello del momento dell’incoronazione di Ruggero II, avvenuta nel 1130 d.C., in cui è ricamata un’iscrizione in lingua araba. Dal sud della penisola l’industria della seta si diffuse in tutta Italia grazie ai numerosi commerci e scambi nel territorio. Le repubbliche come Venezia, o Genova o Lucca istituirono le loro industrie seriche a Costantinopoli, in Siria, nel Peloponneso e in Spagna. Il progresso tecnologico e la manodopera sempre più specializzata accompagnò la continua espansione dell’industria serica nel resto d’Italia.
L’arrivo della seta nel Nord Italia
A partire dal XV secolo, la produzione della seta di intensificò nei territori del Nord Italia; nel 1471 Galeazzo Maria Sforza impose che i proprietari terrieri piantassero alberi di gelso bianchi, ma fu Ludovico Sforza detto il Moro (in dialetto milanese moron, significa gelso) a rendere l’attività più intensa e redditizia. La gelsibachicoltura e la lavorazione della seta trovarono in Lombardia un clima e un contesto idrico ideale (data l’elevata disponibilità di acqua), per l’intero processo produttivo e per il funzionamento dei mulini, che azionavano le macchine. La produzione di seta in Italia raggiunse livelli notevoli ed eccelsi, fino a quando nel Seicento numerosi tessitori italiani migrarono in Francia, attratti dai privilegi che venivano a loro concessi. Questa però non fu solo l’unica motivazione; gli stabilimenti delle città francesi come Lione e Parigi, producevano drappi complessi, in minor tempo con costi di produzione ridotti. Nel XVIII secolo la Francia, che già deteneva il monopolio della moda, in circa un secolo ottenne anche quello della produzione tessile. Fu in questo periodo che si attuò anche la distinzione tra i tessuti destinati all’abbigliamento, quelli all’arredamento e o all’arredo civile e liturgico. Accanto a Parigi, Lione e le città italiane, anche la città inglese di Spitalfields, la quale si occupava della produzione per il mercato inglese e nordamericano.
Gli studi apparsi sulla “crisi del Seicento” e sul suo manifestarsi anche nella tessitura serica italiana hanno posto l’attenzione, com’è noto, soprattutto sul fatto che i più alti costi di produzione dovuti al rigido ordinamento corporativo, rendevano difficile la concorrenza con le più giovani manifatture europee. Non era semplice inoltre, trasferire nel contado la produzione dei tessuti di seta, sia per i divieti imposti dalle corporazioni, sia per la difficoltà di reperire nelle campagne artigiani specializzati in grado di tessere drappi operati. Il ruolo sempre più importante assunto da Lione, a partire dalla seconda metà del secolo, all’interno del setificio europeo, è stato spiegato con l’esistenza in quella città di una particolarissima organizzazione della produzione, basata su una tecnologia all’avanguardia, e, soprattutto, sulla capacità di immettere sul mercato, con cadenza annuale, tessuti sempre nuovi e provvisti di disegni originali, destinati alle fasce più alte del mercato. (C. Poni, Moda e innovazione: le strategie dei mercanti di seta di Lione nel secolo XVIII, in La seta in Europa, cit., pp. 17-55)
Sotto la dominazione austriaca (1700/1796) in seguito all’entrata in crisi del secolo scorso, il governo egemone cercò di far risorgere la produzione serica in Lombardia tramite la concessione di agevolazioni fiscali per i bachicoltori, sviluppando inoltre in modo più mirato la fase della trattura (operazione che permette di ricavare il filo di seta dal dipanamento dei bozzoli del baco da seta) e della torcitura (fase fondamentale della filatura che conferisce coesione e resistenza al filo grazie alla torsione). Nelle zone rurali, soprattutto in quelle collinari, si registrò un incremento delle piante di gelso. In questi territori le famiglie contadine che non erano impegnate nella produzione agricola, si dedicavano alla produzione della seta. A gestire l’attività domestica a domicilio erano i mercanti, i quali potevano acquistare presso l’attività famigliare il prodotto finito o fornire la materia prima e gli strumenti di produzione.
Nel corso della metà del Settecento le industrie che si trovavano nelle grandi città (come il caso di Milano) si spostarono in periferia per una serie di motivi: la disponibilità elevata di manodopera a minor costo e la possibilità di un utilizzo più intensivo delle risorse idriche. Nell’area del Ticino e di Varese le industrie sfruttavano l’energia idraulica come forza motrice per l’attività della filatura. A metà dell’Ottocento l’industria tessile di seta e anche di cotone nelle città di Varese, Busto Arsizio, Gallarate, Milano e Como era ormai ampiamente sviluppata e ben radicata.
Dalla metà del 1800 ad oggi
In quest’ultima, numerosi enti fornivano sostegno e aiuto al settore e per rispondere alla specializzazione meccanica dei macchinari, fu istituita nel 1859 (sotto il Regno di Sardegna) la “Scuola di Setificio”. Dai macchinari in legno si passò poi a quelli in ghisa ed infine a quelli automatici in acciaio. Per rispondere alle richieste di un’industria così fiorente solo nella zona del Lago di Como, in questi anni si potevano contare circa 45 mila impiegati. Con l’inizio del Novecento il settore serico entrò in una profonda crisi; il sistema agricolo stava cambiando, le città espandendosi occuparono parte del terreno agricolo e soprattutto tra i due conflitti mondiali, la richiesta di tessuti naturali diminuì, a vantaggio delle fibre artificiali, meno costose e ai tempi più funzionali. Negli ultimi anni il territorio del Nord Italia ha visto scomparire la presenza della bachicoltura, in seguito al rafforzamento del settore meccanico produttivo del tessile in Cina, la quale per stare al passo con le richieste ha abbassato in modo repentino il costo della manodopera. La seta italiana dagli anni Ottanta in poi ha smesso di essere competitiva con quella proveniente dai territori dell’Estremo Oriente. Nonostante le numerose avversioni, il territorio comasco riesce a mantenere da secoli la sua aura produttiva, conservando ancora attualmente nella provincia le principali fasi e garantendo un prodotto finito di altissimo livello, riconosciuto in tutto il mondo, grazie alla presenza e al lavoro continuo di aziende nate agli inizi del Novecento. Nell’ultimo anno però, con il crescente aumento dell’attenzione posta nei confronti delle composizioni tessili, nei territori compresi tra la provincia di Vicenza e quella di Como si sta assistendo ad un ritorno della gelsibachicoltura, come descrive questo interessante articolo (qui).
La visita al Museo Didattico della Seta, Como
Durante la visita al Museo didattico della Seta di Como, con l’iniziativa Apriti Moda 2020, ho avuto l’occasione di assistere ad una spiegazione approfondita del processo produttivo serico, testimoniato dalla presenza di macchinari e oggetti utilizzati dagli inizi dell’Ottocento, ai giorni nostri nella cittadina comasca e nella provincia. La visita guidata è iniziata con la prima fase del processo serico, la filanda (ottenimento del filo) davanti a delle lettiere della fine del Settecento appartenenti probabilmente a contadini, le quali venivano utilizzate per stendere le foglie fresche di gelso e consentire ai bachi di cibarsi di quest’ultime. La gelsibachicoltura, che veniva effettuata in primavera e in estate, come affermato in precedenza, era una pratica complementare alla tradizione agricola; molte famiglie possedevano gelsi e le lettiere utili per la produzione era poste nelle stalle o nei casi meno fortunati nelle case. Dopo che il baco creava attorno a sé il bozzolo, esso veniva venduto ai setifici che procedevano alle fasi successive della lavorazione.
Una volta che la crisalide all’interno del bozzolo era stata uccisa tramite vapore o alte temperature, si passava ad utilizzare la filandina, un macchinario unico nel suo genere in Europa, attraverso il quale i bozzoli si trasformavano in fili di seta. All’interno della vasca circolare del macchinario si rovesciava dell’acqua calda, nella quale venivano posti i bozzi. Questi ultimi in acqua calda si gonfiavano, lasciando intravedere il capo del filo. Si abbassava dunque la grande spazzola cilindrica che si faceva ruotare all’interno della vasca. Sulle spatole, in questo modo si impigliavano i fili di seta i quali iniziavano nel frattempo ad essere srotolati; successivamente si univano da quattro a sette bave di bozzolo, garantendo un filo più spesso e resistente, adatto per le successive lavorazioni. Esso veniva fatto passare negli occhielli metallici ed infine avvolto in ruote (aspi) nella parte opposta della macchina, le quali formavano le matasse di seta grezza (chiamata così perché al tatto appare ruvida e stopposa per la presenza della sericina).
Successivamente le ruote con le matasse di seta grezza venivano poste nell’incannatoio per procedere con l’incannatura (operazione con la quale il filato viene avvolto su bobine adatte all’orditura). In seguito venivano trasferite su un grande macchinario, chiamato torcitorio che serviva a torcere un singolo filo di seta su sé stesso per aumentarne ulteriormente la resistenza. Il filo si torceva e si andava ad avvolgere su bobine poste orizzontalmente (sia in senso orario che antiorario).
La bobine che erano poste sul torcitorio erano pronte per passare alla prima fase di tessitura. Tramite l’orditoio si prepara l’ordito, affinché questo possa essere utilizzato sul telaio, attraverso l’operazione chiamata “orditura”. Al termine di questa operazione, la fascia di fili verrà rimossa da una persona addetta, formando una treccia. Essa verrà poi sciolta e arrotolata sul cilindro orizzontale. Durante l’ultima fase dell’orditura, i fili venivano trasferiti dall’orditoio orizzontale ad un cilindro rimovibile chiamato subbio (nell’industria tessile, è l’ elemento di sostegno per l’avvolgimento del filato d’ordito, costituito da un cilindro delimitato alle estremità da due dischi o flange) che veniva poi collocato all’interno del telaio.
Per quanto riguarda la parte relativa al colore, si ricorre alla tintura dei singoli filati quando il tessuto finale è composto da vari colori (tessuti tinti in filo), mentre si può parlare di tintura del tessuto quando questo deve essere destinato ad avere un’unica tinta o una base uniforme per la stampa (tinto in pezza).
In una sala del museo, si può vedere la testimonianza di un laboratorio chimico che apparteneva ad un’azienda tessile del comasco. Fino alla metà dell’Ottocento circa, il colore dei tessuti era dato unicamente da tinture naturali, provenienti da semi, fogli, bacche ecc. Essi avevano il difetto di dare un effetto poco uniforme alle pezze tinte. Dal 1856 si iniziò a sviluppare l’industria dei coloranti sintetici, i quali garantivano invece solidità, potenza, costi ridotti e dispendio di tempo minimo. William Perkin, giovane chimico, arrivò dopo vari tentativi, a scoprire i colori all’anilina, i quali si fissavano sul tessuto molto meglio di quanto facessero i coloranti del tempo che erano tutti ottenuti da vegetali. Il successo fu enorme, ma i coloranti all’anilina, sostanza nociva e velenosa, presto presentarono il loro risvolto negativo, in modo particolare per i tintori.
Prima della tintura, la seta doveva essere purgata, cioè veniva eliminata da essa la sericina. Le tecniche di tintura erano appannaggio degli uomini, che in grande tinozze o vasche di rame, una volta dopo aver inserito la giusta dose di coloranti sintetici all’anilina con acqua bollente, introducevano il filato o l’intera pezza greggia e li muovevano con grandi bastoni di corniolo, un legno resistente o in alcuni casi direttamente con le mani, senza guanti (il contatto diretto con i coloranti all’anilina provocò morti precoci tra i tintori). Una volta che il tessuto aveva preso colore, le tinozze venivano rovesciate nei fiumi (nel caso di Como nel torrente Cosia). Finita la pratica della tintura, il filato veniva lasciato asciugare, tramite gli stessi bastoni posti orizzontalmente.
Un altro metodo per creare dei disegni, oltre alla tessitura jacquard e il ricamo, era la stampa. In origine venivano utilizzati blocchi di legno intagliati a rilievo (hand block prints) per la stampa a mano. Questi blocks, in legno di noce o cedro, una volta carichi di colore, venivano appoggiati sul tessuto (che era fissato ai lati) e spostati delicatamente lateralmente della grandezza del blocco in modo tale da creare un grande pattern uniforme. Se la stampa possedeva più colori, bisognava intagliare più blocchi diversi e fare più passaggi sul tessuto. Successivamente questa tecnica fu soppiantata da una stampa più veloce, introdotta nel 1780 in Francia, chiamata stampa a rulli, che poteva produrre fino a 12 colori. Anche questa tecnica venne sostituita dalla stampa rotativa con cilindri a fotoincisione, in cui è impresso il disegno. Dagli anni ’90 del Novecento la stampa più utilizzata è quella digitale inkjet, affiancata anche dalla stampa a quadro.
Per finire il tessuto veniva stirato e finito tramite una macchina composta da due cilindri, che non solo lo stirava eliminando le pieghe, ma donava ad esso brillantezza e luminosità.
La visita al Museo didattico della Seta di Como è stata per me fonte di nuove conoscenze e aneddoti interessanti. Molto spesso vengono dati per scontati i procedimenti che si trovano dietro alla formazione di un tessuto, in realtà sono operazioni che anche se ora nella maggior parte dei paesi vengono realizzate con l’aiuto di macchinari contemporanei, richiedono studio, manualità, capacità, cura e precisione. Non conoscevo così bene la storia e il processo produttivo del tessuto serico e come mai la città di Como è stata ed è così importante per la produzione del prezioso tessuto. Ho nell’armadio camicie, blouse, gonne e foulard in seta; nel momento in cui li indosso percepisco la freschezza e luminosità che i capi realizzati con questo tessuto riescono a trasmettere. Se prima consideravo i tessuti naturali con un’aura magica, dopo la visita al museo e dopo l’aver appreso le diverse leggende che nel tempo si sono create dietro al prezioso tessuto, posso del tutto confermare la mia teoria.
Vi consiglio la visita al Museo didattico del Tessile per la presenza di testimonianze non solo legate alla seta, ma anche al settore del tessile e per capire quanto Como e la sua provincia fossero e siano tutt’ora un centro estremamente importante. Un punto assolutamente positivo è stata la profonda conoscenza e la disponibilità del ragazzo, guida del museo che ha saputo incuriosire con aneddoti e rendere la visita ancora più interessante.
Il Museo didattico della Seta si trova in Via Castelnuovo, 9 nella città di Como (CO); potete trovare più informazioni, tra cui gli orari sul loro sito.
Siete mai stati al Museo della Seta di Como? Com’è il vostro rapporto con i tessuti naturali? Fatemi sapere!
Per la scrittura del post è stato fondamentale il testo St Clair Kassia, La trama del mondo. I tessuti che hanno fatto la storia, UTET, 2019 e il blog http://stec-172318.blogspot.com/, L. Molà, R. C. Mueller, C. Zanier, La seta in Italia dal Medioevo al Seicento, Saggi Marsilio, Venezia, 2000.
Valentina
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